Giovanni De Luna per “La Stampa”
Ora sono scese in campo le vittime del «politicamente corretto», quelli che si sentono oppressi da una moltitudine di gay, neri, femministe, immigrati, atleti e arbitri che si inginocchiano, tutti pronti a soffocare chiunque si opponga al loro strapotere. È una rappresentazione della realtà al limite del grottesco che arriva a considerare «eroico» il comportamento di quanti esprimono nel web il proprio odio, con un linguaggio in cui la scurrilità incredibilmente assume i contorni virtuosi della protesta anticonformista e trasgressiva.
Gli «odiatori da tastiera», che da carnefici indossano le vesti delle vittime, sono gli ultimi arrivati sul grande palcoscenico della competizione vittimaria e il loro atteggiamento è davvero paradossale se è vero che, dagli ultimi anni del Novecento in poi, una tendenza inarrestabile ha portato progressivamente le democrazie occidentali a confondersi con i sistemi politici autoritari in cui (parlo della Russia di Putin o dell'Ungheria di Orban) i comportamenti ispirati al «politicamente corretto» sono stati spesso duramente repressi, trattati alla stregua delle opposizioni politiche mal tollerate in quei regimi. Donald Trump è stato un campione del «politicamente scorretto».
Matteo Salvini, prima della sua svolta collaborazionista, lo è stato qui da noi in maniera eclatante. Ma non si tratta solo di una riedizione postnovecentesca della differenza tra destra e sinistra. Tutti, a qualsiasi schieramento politico appartengano, tendono a rappresentarsi come vittime; a dare forza alle proprie posizioni raccontandosi come una minoranza perseguitata, prigioniera di un senso comune descritto come ostile e pericoloso.
È l'approdo ultimo di una competizione vittimaria che ha colonizzato lo spazio pubblico della memoria e della cittadinanza in molti Paesi occidentali, caratterizzata da una fortissima carica rivendicativa e da un'inesausta richiesta di risarcimento e di riparazione. Il conflitto è tra chi riesce a raccontarsi come più vittima delle altre vittime, in una soffocante presenza di emozioni (odio, vendetta, perdono, pietà, compassione) prima confinate nel privato degli interni domestici. Una competizione resa assordante dalla risonanza mediatica attribuita al lutto e al dolore.
Per emozionare, commuovere, suscitare consenso, le sofferenze vanno gridate; e più si grida forte, più si sfondano le barriere dell'audience. Quasi che le emozioni siano merci e quasi che sia il mercato a imporre le sue regole, nel controllarne la domanda e l'offerta attraverso la «televisione del dolore» e, in modo ancora più massiccio, attraverso il web.
In Italia è così: della mafia, del terrorismo, delle foibe, della Shoah, delle catastrofi naturali, ora del Covid o dei vaccini, vittime sempre e solo vittime, ognuna con la sua «giornata della memoria», i suoi rituali, le sue celebrazioni. Molte delle pulsioni che si agitano nel nostro universo vittimario nascono dai nodi irrisolti di un passato abbastanza recente, dagli anni Settanta delle stragi e dei tanti misteri irrisolti che ancora oggi gravano come una cappa oscura sul funzionamento delle nostre istituzioni.
L'assenza di verità e di giustizia su episodi che hanno profondamente influenzato il corso della nostra storia lascia aperte troppe ferite, alimenta una spirale interminabile di rancori, rende impossibile recintare uno spazio comune: uno spazio in cui vittime e carnefici, colpevoli e innocenti possano confrontarsi all'insegna di una certezza e di una verità che non siano solo quelle delle loro storie personali, in cui sia finalmente consentito al passato di passare, in cui sia possibile offrire, a chi lo vuole, un colpevole da perdonare.
Le nostre istituzioni non sono state abbastanza «virtuose» per riuscirci. Ed è per questo che, in Italia, la subalternità al mercato e la trasformazione delle emozioni in merci appaiono ancora più clamorosamente evidenti.
Nell'assenza di una politica credibile e autorevole, affidata alle regole del mercato e della comunicazione mediatica, la «centralità delle vittime» posta come fondamento di una memoria comune alla fine divide più di quanto unisca.
C'è un primo antidoto culturale a questa deriva ed è racchiuso in uno slogan - «più storia meno memoria» - che è anche il tentativo di distanziarsi dalla tempesta sentimentale che imperversa nel nostro spazio pubblico, recuperando un rapporto con il passato più problematico, più critico, più consapevole. Sarebbe bello poter guardare alla storia come all'asse portante di una formazione laica e democratica.
Dopo il Covid, la cittadinanza che le istituzioni sono chiamate a rifondare è locale ed europea, nazionale e planetaria: una storia che rispetti le regole del gioco e rifiuti di schiacciarsi sul senso comune delle diverse pulsioni vittimarie è quella che meglio ci aiuterebbe a costruirla.
Ma non basta. La conoscenza storica è la classica condizione necessaria ma non sufficiente. Ci vuole qualcosa di più, qualcosa che proponga un insieme di valori e di virtù, e anche di esempi, che possano rappresentare in modo efficace oggi cosa significhi riconoscersi compiutamente in una democrazia come la nostra, rilanciando quella che Piero Calamandrei chiamava «religione civile». Il termine religio definisce la «religione» come qualcosa che lega, che unisce; «civile» suggerisce che nel diventare cives gli individui accettino dei vincoli e si riconoscano in uno Stato legittimato anche da un insieme di narrazioni storiche, figure esemplari, miti, simboli che riescano a radicare le istituzioni non solo nella società ma anche nelle menti e nei cuori dei singoli individui.
Si tratta di recintare uno spazio in cui gli interessi che tengono insieme un Paese si trasformano in diritti, in doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali i cittadini italiani sono sollecitati ad abbandonare le loro tradizionali nicchie individualistiche, condividendo un universo di simboli in grado di «legare» il singolo e la società in un rapporto di dipendenza e di identificazione. Ed è esattamente quello che non possiamo chiedere alle vittime, soprattutto se continuiamo a usarle strumentalmente per prevalere nello scontro con chi non la pensa come noi.