ADDIO A JOAN DIDION - PRIMA DI ESSERE LA PIÙ GRANDE SCRITTRICE AMERICANA DEL NOSTRO TEMPO, È STATA UNA DONNA CHE HA BRUCIATO LE TAPPE DELL'EMANCIPAZIONE FEMMINILE. ‘’COLORO CHE HANNO RISPETTO DI SÉ MOSTRANO UNA CERTA DUREZZA, ESIBISCONO QUELLO CHE UNA VOLTA SI CHIAMAVA CARATTERE, UNA QUALITÀ CHE, SEBBENE SIA APPREZZATA IN ASTRATTO, A VOLTE PERDE TERRENO RISPETTO AD ALTRE VIRTÙ PIÙ NEGOZIABILI. EPPURE, IL CARATTERE, LA VOLONTÀ DI PRENDERSI LA RESPONSABILITÀ DELLA PROPRIA VITA, È LA FONTE DA CUI SPRIZZA IL RISPETTO DI SÉ’’ - AVEVA 87 ANNI - VIDEO
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Mario Platero per “Robinson - la Repubblica”
Cominciamo con una premessa: prima di essere la più grande scrittrice americana del nostro tempo, Joan Didion è stata una donna che dal suo debutto, alla fine degli anni Cinquanta ha bruciato le tappe dell' emancipazione femminile in un mondo occupato da uomini.
Lo ha fatto in modo originale, solitario, determinato, efficace. Le chiedo quanto fosse decisa a farcela in questo mondo dominato dai maschi, se si rendeva conto di aprire con la sua opera, con la sua vita, nuove frontiere per le donne: «Non avevo coscienza di essere una donna che apriva nuove strade per altre donne, non pensavo a me stessa in quell' ottica», mi dice in un' intervista a New York dalla sua casa sulla 71 East dove è in prudente lockdown dall' inizio della pandemia e da dove si concede al massimo una puntata a Central Park.
Mi torna in mente una sua frase in una delle sue prime collezioni di saggi, ‘’Verso Betlemme’’ (riuscito in Italia, come gli altri titoli, da il Saggiatore): «Sono così piccola fisicamente, così discreta per temperamento e così nevroticamente inarticolata che la gente tende a dimenticare che la mia presenza va contro i loro migliori interessi» .
È un tema ricorrente. Lo ripropone in uno dei saggi del suo ultimo libro e quando le chiedo di commentare mi conferma: «La mia apparente fragilità era davvero la mia arma segreta».
Dietro questa fragilità solo apparente, fisica, di allora, c'erano anche incertezze, insicurezze, disperazione, sentimenti ricorrenti nella sua opera e nei suoi umori. Ma su tutto, sul lutto, sulle paure, sul senso di vuoto, hanno sempre prevalso la tenacia, il carattere, la precisione, il metodo.
Anche per questo - pur provata fisicamente come è oggi - Joan Didion è riuscita a darci a 86 anni questo altro libro, Let Me Tell You What I Mean, pubblicato a New York da Knopf appena poche settimane fa, una collezione di saggi scritti fra il 1968 e il 2000.
I più vecchi, quelli del 1968, ci portano a un passato remoto denso di nostalgia per il lettore di oggi. In "Pretty Nancy" nella cornice di un' intervista con Nancy Reagan, quando Ronald era ancora governatore della California, c' è una descrizione puntuale dell' America contemporanea di allora, che non esiste più.
In "Non essere scelta dall' università preferita" c' è il ricordo, umiliante e deprimente, della lettera con cui veniva respinta la sua domanda di ammissione a Stanford. Fu poi ammessa a Berkeley e, come ci racconta, andò anche meglio.
In " Why I Write" confessa che ci volle del tempo, anche all' università, per capire che la sua era una vocazione da scrittore. Solo dopo, dopo le raccolte di saggi, a partire da White Album ci avrebbe dato alcuni capolavori. Penso a ‘’L' anno del pensiero magico’’ del 2005.
È scrivendo il Pensiero magico che Joan riesce a superare la disperazione per la perdita improvvisa nel 2003 di suo marito John Gregory Dunne, del compagno della sua vita, dello scrittore amico, irascibile, con cui confrontare opere e pensieri. Proprio nel 2005 muore anche sua figlia Quintana Roo a 39 anni. Un altro immenso dolore.
A Quintana, unica figlia, adottata a Hollywood, dedica un altro libro, Blue Nights. Ma è con ‘’L' anno del pensiero magico’’ che ha vinto il National Book Award ed è intuitivo pensare che questa sua opera sia adatta a questo momento terribile per l' America, travolta dal più grande lutto collettivo della sua storia. La fuga nel "pensiero magico" potrebbe aiutare, ma di questo nella nostra intervista Joan non ne vuole parlare, non vuole fare confronti o collegamenti tra il suo libro e questa tragedia contemporanea.
Piuttosto, come spesso le succede (pensiamo a quante anticipazioni ci sono nella sua opera!) preferisce guardare in avanti, al dopo, e, pensando al futuro, non può fare a meno di essere angustiata: «Sono preoccupata per quel che succederà quando il Covid sarà superato - mi dice - lo sono per quel che, per molti, potrà essere la conseguenza in termini di stabilità mentale » . Se ne parla ovviamente, quanto del nostro equilibrio pre Covid resterà intatto nel post Covid? La domanda è profonda e spaventosa allo stesso tempo. E per ora non abbiamo risposte.
Quella con Joan non è stata un' intervista facile. Già, in generale, tutto avviene a distanza, via Zoom o al telefono. Ma con Joan neppure Zoom è possibile. È oltremodo affaticata. Parla pochissimo. Le sue frasi sono brevissime, spesso monosillabiche. L' ultima volta che la vidi, un paio di anni fa, la sua fragilità era preoccupante. Oggi è ancora più magra, sembra un fuscello pronto a volare con un soffio di vento. È di nuovo un' apparenza, perché poi, come abbiamo visto, lavora e pubblica ancora.
Il suo pensiero, come mi sono accorto dall' interazione su domande e risposte, è arguto e selettivo. Alla fine, con l' aiuto della sua editor storica, Shelley Wanger di Knopf, siamo arrivati all' unica soluzione possibile, quella di contattarci via mail. Mi dispiaceva non ascoltare la sua voce esitante ma chiara, non sorprendermi per la sua risata gioiosa e improvvisa o non seguire il suo gesticolare teatrale e complementare al movimento del suo pensiero. Lo avevo seguito in altre occasioni.
Ci si vedeva, ormai molti anni fa a casa di Camilla e Earl McGrath, sulla 57esima West, proprio davanti alla Carnegie Hall. Era uno dei grandi salotti intellettuali di una New York di un altro tempo.
Oltre a John Dunne e Joan Didion c'erano il fratello di John, Nick e suo figlio Griffin. Griffin è un regista, alcuni anni fa ha girato uno splendido e commovente documentario su Joan che potete trovare su Netflix. C' erano Ahmet Ertegun, di origine turca, il leggendario raffinatissimo fondatore della Atlantic record - che lanciò tra gli altri Ray Charles e i Rolling Stones in America - e sua moglie Mica; artisti come Larry Rivers o Cy Twombly, se era di passaggio a New York. Editori come Sonny Mehta e molti altri.
Earl, un mercante d' arte, era un amico da sempre, dai tempi della California, nella seconda metà degli anni Sessanta, ben prima del ritorno a New York.
Joan lo ricorda più volte nell' Anno. E pensando al momento difficile che stiamo passando mi concede due riflessioni, una sull' amicizia e l' altra sulla nostalgia che diventano elementi chiave per il conforto e per la fuga mentale in questi lunghi momenti di isolamento.
« L' amicizia o la famiglia sono un pilastro quando si affronta una perdita - dice Joan - se penso a Earl penso a un' ancora, lo stesso vale per Harrison». Harrison è Harrison Ford, il grandissimo attore. Prima della sua orbita fra le stelle di Hollywood, faceva il falegname. Come racconta lui stesso in varie occasioni, andò a vivere con John e Joan per ampliare la loro casa.
Erano già celebrità, lui, invece, uno sconosciuto. Ma lo invitavano con la moglie e i figli alle feste comandate. E lui andava con riconoscenza. Il rapporto, dopo, non è mai più cambiato. Chiedo a Joan se un balzo nostalgico nel passato può aiutare, se può essere un balsamo per i momenti di sconforto, anche quelli dal lockdown pandemico.
« Non so se la nostalgia sia un balsamo per curare lo spirito quando sei giù - risponde, confermando quanto la sua concezione di nostalgia sia avulsa dal rischio di cadere in un romanticismo sdolcinato - ma so che per me le cose importanti nella nostalgia sono l' insieme del ricordo di un posto, di un umore, di una luce, di un singolo momento particolare, di una interazione con amici o con altra gente » .
Al momento nostalgico non poteva mancare la sua città, New York. Le manca la città di un tempo? La ritroveremo nel post Covid? « Certo che mi manca New York come la conoscevo prima della pandemia. E sì, credo che New York ce la farà, tornerà alla sua grandezza come ha fatto in passato » .
Qui Joan risponde indirettamente anche a un editoriale di Peggy Noonan uscito giorni fa sul che definisce New York come una città finita. Ma Joan con questa città ha intrecciato un rapporto creativo e di vita indimenticabile: pensare a una sconfitta non è possibile. E c' è da capirla, basta leggere il ricordo del suo arrivo a Manhattan dopo aver vinto un concorso di il Prix de Paris, che la portava a lavorare al più importante mensile "intelligente" per la donna.
Scrive: « Arrivando avevo vent' anni, sentivo l' aria calda dell' estate e un qualche istinto programmato da tutti i film che avevo visto, da ogni canzone che avevo sentito cantare e da ogni storia che avevo letto su New York, mi informava che niente sarebbe stato davvero più lo stesso. E infatti nulla poi è più stato lo stesso».
Didion viene risucchiata dal vortice di energia della città e dal lavoro. È a New York che incontra John alla fine degli anni Cinquanta. È a New York che capita per caso la svolta letteraria: manca un articolo di copertina e lo affidano a lei. Titolo "Il rispetto di sé: la sua origine, il suo potere". Esce il 1° agosto 1961.
Per le donne lettrici di scrive: « Coloro che hanno rispetto di sé mostrano una certa durezza, un certo coraggio mortale, esibiscono quello che una volta si chiamava carattere, una qualità che, sebbene sia apprezzata in astratto, a volte perde terreno rispetto ad altre virtù più negoziabili. Eppure, il carattere, la volontà di prendersi la responsabilità della propria vita, è la fonte da cui sprizza il rispetto di sé » . Joan diventa un autore di cui si parla. È il momento in cui, « senza averne coscienza » come mi ha detto, si inserisce in un mondo di uomini.
Gli scrittori del suo tempo erano presenze forti: Norman Mailer, Truman Capote, Tom Wolfe, Philip Roth, Hunter Thompson. Ma in quello spazio occupa una casella importante. Con John si sposano nel 1964 e decidono di trasferirsi in California. E quasi subito lei viene intervistata da un giovanissimo Tom Brokaw per la rete Nbc sulla meravigliosa terrazza della casa di Hollywood, su Franklin Avenue.
Vediamo Joan giovane, bella, capelli al vento, occhialoni neri da sole anni Sessanta. Non sempre tutto è facile sul piano personale. Il suo percorso continua con una riflessione sulla sua condizione di donna, di moglie di un "irlandese" con "temperamento", di madre di una bambina di tre anni, Quintana Roo, adottata a Hollywood: nel 2005, dopo L' anno del pensiero magico, Didion perderà improvvisamente anche lei.
Ma intanto, negli anni Sessanta, Joan vive in bilico all' interno di un rapporto matrimoniale che si è fatto difficile e scrive: «Voglio che tu sappia che cosa ho in mente. Voglio che tu capisca quello che hai, hai una donna che per qualche tempo si è sentita separata in modo radicale da gran parte delle idee che sembrano interessare le altre persone. Hai una donna che a un certo punto lungo il cammino ha perduto quel poco di fiducia che poteva avere nel contratto sociale, nei principi per migliorare, nel complessivo grande modello dell' avventura umana».
Nel saggio "Nelle isole", incluso nel suo libro Didion racconta il posto dov' erano in vacanza, il Royal Hawaiian Hotel: le onde e il vento che fanno da cornice al momento: «Siamo qui, in quest' isola nel mezzo del Pacifico - annota - invece di chiedere il divorzio». Poi, anni dopo, tornano a New York.
Le chiedo di alcune sue immagini del periodo californiano, del servizio fotografico di Julian Wasser. Nella foto è in piedi, sigaretta in mano, appoggiata alla sua Corvette Stingray giallo Daytona, un elemento scenografico normalmente maschile. Lei è molto cool. C' è un' aria di sfida. Forse, senza quella foto, Thelma & Louise, che viene girato 23 anni dopo, non sarebbe stato possibile.
Il suo vestito, una tunica lunga, leggera, morbida, attillata, rivela una flessuosità inaspettata per una donna che dice di essere piccola fisicamente, discreta per temperamento e nevroticamente inarticolata. Le chiedo perché ha comprato la Corvette: « I just loved it » , risponde. Le chiedo se gli stilisti avevano organizzato la foto e il vestito: «Quello era il mio vestito - dice - l' ho scelto io».