AMERICAN UTOPIA! MOLENDINI: "UNO SPETTACOLO ELEGANTE, SAPIENTE, ECCITANTE FRUTTO DELL'INCONTRO DI DAVID BYRNE E SPIKE LEE GIRA DA QUALCHE TEMPO SULLE PIATTAFORME (ANCHE SKY) E, CHI NON AVESSE AVUTO OCCASIONE DI VEDERLO, HA L'OCCASIONE BUONA: UN'ORA E QUARANTA PER RIEMPIRE IL SERBATOIO DEL BUON GUSTO. NON È UN MUSICAL, MA UN CONCERTO IN MOVIMENTO, UN MANIFESTO A PIEDI NUDI SULL’AMERICA DI OGGI… - VIDEO
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Marco Molendini per Dagospia
La musica ha smesso di sognare da un bel po’ di tempo. Le utopie sono ingabbiate in un conformismo statico che prova a svincolarsi solo inventando nuovi luoghi comuni dell’impegno. Per questo sorprende quando qualcuno prova a rievocare la perduta forza creativa. E' il caso di American Utopia spettacolo elegante, sapiente, eccitante dell'american dreamer di sangue scozzese David Byrne, un artista che da anni viaggia su lunghezze d'onda personali con il cuore dell’etnomusicologo, le curiosità dell’antropologo senza rinunciare ad essere un provocatore.
American Utopia è un disco, è stato un concerto meraviglioso (ricordo una serata eccitante a Umbria jazz di cinque anni fa), un film, un play che ha avuto una versione filmata da Spike Lee, uno dei registi cinematografici più musicali che ci siano in circolazione (il suo Mo' better blues resta un esempio esplicito). Il frutto dell'incontro di David e Spike gira da qualche tempo sulle piattaforme (anche Sky) e, chi non avesse avuto occasione di vederlo, ha l'occasione buona: un'ora e quaranta per riempire il serbatoio del buon gusto e ammirare uno spettacolo che non ha alcuna nostalgia del passato. E' una ricerca del bello, dell'intelligente, della contemporaneità in un luogo dove tutto si tiene insieme.
C’è la musica ardita, ardita perché fuori dai cliché dominanti: non a caso fra i collaboratori di Byrne c'è ancora quel genio di Brain Eno a cui si aggiunge il contributo dell'avventuroso Daniel Lopatin ( suo il mantra “This Is That” che recita: “This is when/ This is now/ This is that/ This is how/ This is what/ This is then/ This is where”). Ci sono le coreografie geometriche, semplici e sorprendenti. Ci sono le scene spoglie di formidabile efficacia nel loro rigore. Ci sono le luci che colorano i movimenti. Una gioia per gli occhi e per le orecchie che il regista ha raccolto da ammiratore sapiente, osservatore discreto con la mano del gran professionista.
La regia insegue Byrne e il suo spettacolo dall’alto, dal basso, dalle quinte, di fronte, tiene il ritmo della musica, osserva lo spazio scenico riempito da attori musicisti e cantanti anonimamente vestiti di grigio e che non smettono mai di muoversi, quasi una marchin' band di New Orleans o una formazione pescata nei desfile del carnevale brasiliano, entrambe negazione alla staticità di ogni concerto.
Così, American Utopia, perde ben poco rispetto alla esaltante sensazione dell'esperienza live, anzi è come osservare con un microscopio il lavoro di un artista raro. Byrne resta la testa parlante, il talking head, di un tempo, ma negli anni ha girato, ascoltato, assorbito, ragionato, senza farsi imprigionare dal ruolo della star. Indossando i panni dell’esploratore, si è immerso nella musica brasiliana e in quella africana. Ha anche realizzato, tempo fa, un progetto singolare: mettere in musica la vita di Imelda Marcos, la first lady che, mentre il marito vessava il paese con leggi marziali, perdeva la testa per lo Studio 54 di New York fino a farsi costruire una copia della ballroom e che nella sua residenza. American Utopia, però, non è un musical, ma è un concerto in movimento, la somma di tante esperienze fatte e rielaborate.
E' un viaggio che guarda al passato e al presente, un manifesto a piedi nudi sull’America di oggi, l’America libera e violenta, i suoi vizi, i suoi peccati, il suo razzismo. «Feet on the ground, head in the sky («Piedi per terra, testa fra le nuvole») canta This must be the place ( la canzone che ispirò il film di Paolo Sorrentino con Sean Penn), recuperata nella colonna sonora insieme ad altri pezzi dalla stagione dei Talkin Heads. Un racconto duro, esplicito, senza sconti, che si chiude con una liberatoria, felice passeggiata in bicicletta per le strade di Manhattan, sperando che la vita sia più forte della realtà.