ANCHE I RICKY PIANGONO – DOMANI SU NETFLIX ARRIVA LA SECONDA STAGIONE DELLA COMMEDIA NERISSIMA “AFTER LIFE”, CREATA DAL GRANDIOSO RICKY GERVAIS CHE INTERPRETA UN VEDOVO DI PROVINCIA LA CUI VITA È DIVENTATA UN GUSCIO VUOTO DA RIEMPIRE DI ALCOL E CINISMO – DA “THE OFFICE” AL MONOLOGO ORMAI CELEBRE IN CUI INSULTA TUTTI AI “GOLDEN GLOBE” – VIDEO
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1 – IL MONOLOGO INTEGRALE DI RICKY GERVAIS AI GOLDEN GLOBES, DOVE HA FATTO A PEZZI HOLLYWOOD PER LA QUINTA VOLTA - ''C'ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD DURA TRE ORE. DI CAPRIO È ANDATO ALLA PRIMA E ALLA FINE DELLA PROIEZIONE LA SUA RAGAZZA ERA DIVENTATA TROPPO VECCHIA PER USCIRE CON LUI. PERSINO IL PRINCIPE ANDREA GLI HA DETTO: 'LEO, HAI QUASI 50 ANNI, VEDI CHE DEVI FARE…''
2 – IL COMICO CHE SPUTA IN FACCIA A HOLLYWOOD
Claudia Casiraghi per “la Verità”
Tony Johnson è un vedovo di provincia, con il ventre arrotondato dai troppi gin tonic. Di professione sarebbe giornalista, ma il suo lavoro alla Tambury Gazette di giornalistico ha sempre avuto poco. Negli anni, Johnson si è dovuto sorbire gli sproloqui dei propri concittadini: stramboidi certi di vedere Gesù nelle macchie d' umido di cui sono costellate le proprie pareti domestiche, giovani dai talenti improbabili, vecchiette cui la senilità ha sciolto la lingua.
Una volta, ne rideva, ma la morte per cancro della moglie Lisa si è portata via ogni sua voglia di divertirsi. Johnson è diventato un guscio vuoto. E il pallido riflesso di quel che è stato ha preso, per inerzia e senso di colpa, a vivere quell' era torbida che, senza Lisa, ha preso nome di «dopo la vita». After Life, come recita il titolo della serie televisiva che, in Tony Johnson e nel suo presente di vedovo, ha la propria ragion d' essere.
La produzione britannica, alla sua seconda stagione, torna su Netflix domani, ritrovando Johnson dove lo ha lasciato: alle prese con un' esistenza fetida e detestabile, pervasa dal senso di colpa e da amicizie bizzarre (il postino, la professionista del sesso).
Avrebbe voluto suicidarsi, Johnson, ma in After Life, è ancora l' uomo che è stato: solo, stanco, consumato da un senso di impotenza che, a tratti, si tramuta in egoismo. La rabbia cieca della prima stagione, però, si è attenuata. Il vedovo, quasi, è venuto a patti con quello strazio chiamato destino e, i sei episodi inediti, sono un affastellarsi di stati d' animo che, a dispetto delle aspettative, non ha nulla di triste.
After Life è una commedia nera. Non è retorica. Non è petulante. Non insiste, con quella morbosità lacrimosa tipica di Hollywood, sul dolore e sulla morte. Li alleggerisce, ritrovando nel male non un' intenzione ma una cinica indifferenza. Succede. E questo è quanto. Senza un perché o un accanirsi della vita. After Life è la rivincita della normalità sulla ricerca, spesso affannosa, della drammaturgia. E a renderla possibile è Tony Johnson, alias Ricky Gervais, che la serie l' ha creata e prodotta.
Nato a Reading, ad Est di Londra, nel 1961, Gervais alla televisione ci è arrivato per caso. Se avesse seguito il cuore, avrebbe fatto il cantante. Invece, tra brevi soggiorni radiofonici e prime prove di comico, ha ideato The Office, mockumentary Bbc che, nel 2001, lo ha portato alla fama. La produzione, un finto documentario ambientato in un' impresa cartaria della tristanzuola Slough, è stata la prima e l' unica serie britannica ad aggiudicarsi un Golden Globes, spalancando le porte di Hollywood all' uomo che più ne avrebbe criticato l' assetto.
Gervais, che con The Office ha vinto anche un Golden Globes al miglior attore in una serie televisiva, musical o commedia, allora è diventato una star. L' America, per cinque volte, gli ha affidato la conduzione dei Golden Globes. E, per cinque volte, si è vista sputare in faccia. «Questa sarà la mia ultima volta qui. E non mi interessa», ha detto il comico britannico durante l' ultima cerimonia dei premi, vomitando sul palco le stesse realtà denunciate nel corso delle edizioni passate.
«La Hollywood Foreign Press è razzista, Leonardo DiCaprio esce con le ragazzine, Robert Downey Jr. è stato in carcere». E così via, fino alla ramanzina più dura, di quelle che anche i Roberto Benigni d' Italia dovrebbero sorbirsi, almeno prima di Sanremo. «Se stasera vinci un premio, non usare la tua piattaforma per fare un discorso politico. Non siete nella posizione di dare lezioni al pubblico su nulla. Non sapete nulla del mondo reale. La maggior parte di voi ha passato meno tempo a scuola di Greta Thunberg. Quindi, se vincete, venite su, accettate il vostro piccolo premio, ringraziate il vostro agente e il vostro Dio e andate a farvi fottere», ha tuonato, rivolto ai partecipanti, lui che The Guardian ha ribattezzato il «Woody Allen inglese».
Gervais, idolatrato da David Letterman come «genio», ha fatto della franchezza un' arte.
E, negli anni, non ha fatto sconti a nessuno, mai. Su Twitter, ha difeso J.K. Rowling da chi l' ha accusata di transfobia, riso del perbenismo di maniera di cui è intrisa Hollywood, ha preso in giro i suoi interpreti più illustri.
Non ha calcolato le conseguenze. Perché «chi se ne importa se è la mia ultima volta qui», ha detto, con un bicchiere di vino in mano, ringraziando Dio di averlo fatto ateo, in un eccesso di politicamente scorretto che altro non è se non l' essenza stessa di Gervais, ultimo uomo a non aver svenduto il proprio talento all' industria per la quale (ancora) lavora.