ARRIVA AL CINEMA "GLI STATI UNITI CONTRO BILLIE HOLIDAY" E LA LEGGENDARIA CANTANTE VIENE INTERPRETATA DA ANDRA DAY, UNA PRINCIPIANTE ASSOLUTA, 36 ANNI E FIN QUI UNA BRILLANTE CARRIERA DA CANTANTE SOUL, MA PRIVA DI INCURSIONI NEL MONDO DEL CINEMA: "NON AVEVO MAI RECITATO, È STATA LEI (E IL MIO NOME D'ARTE) A DARMI LA FORZA" - LA STORIA: PER LE AUTORITÀ ERA U NEMICO DELLO STATO PERCHÉ CANTAVA IN PUBBLICO STRANGE FRUIT... - VIDEO

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Stefano Pistolini per "il Venerdi di Repubblica"

 

La voce di Billie Holiday contiene così tante cose da provocare turbamenti immediati in chi la ascolta.

 

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Dentro c'è un'inesauribile malinconia, c'è il mal di vivere, c'è una sviscerata passione per la musica dei padri, c'è il desiderio di trasformare la musica in arma sociale, c'è un erotismo naturale e impossibile da imbrigliare.

 

Indossare i panni di Billie, farla rivivere, è una sfida affascinante e rischiosa. Ci vuole fegato, talento e una certa spudoratezza. Ma nel film Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, diretto dal regista afroamericano Lee Daniels (Precious, The Butler. Un maggiordomo alla Casa Bianca), ci riesce in modo convincente Andra Day, una principiante assoluta, 36 anni e fin qui una brillante carriera da cantante soul, ma priva di incursioni nel mondo del cinema.

 

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Il film di Daniels si concentra su una galleria di zone oscure nella vita della Holiday: l'infanzia traumatica, segnata da una violenza carnale all'età di dieci anni. La sua attrazione per gli uomini violenti e arroganti.

 

La sua vulnerabilità emotiva che la consegna tra le braccia della dipendenza da eroina. E soprattutto il suo tragico corpo a corpo col Federal Bureau of Narcotics, l'agenzia governativa che la perseguita fino alla morte, nel 1959 a soli 44 anni.

 

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Non è soltanto il suo smodato uso di droghe a provocare la furia dei federali, quanto l'ostinato rifiuto di rinunciare a cantare in pubblico una canzone assai particolare come Strange Fruit, scritta nel 1939 dall'insegnante ebreo-russo del Bronx Abel Meeropol, le cui parole evocano, con dettagli sospesi tra poesia ed orrore, la ripugnante quanto ricorrente pratica del linciaggio dei neri d'America. Un personaggio del film dice che il testo della canzone «provoca le persone nel modo sbagliato»: quel che è certo è che non può lasciarle insensibili. E per le autorità deputate, eseguirla al cospetto di una platea è un gesto anti-americano e chi lo fa è un nemico dello Stato.

 

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Sceneggiato da Suzan-Lori Parks, ispirato al volume del giornalista Johann Hari Chasing the Scream, studio sulla guerra alla droga condotta a partire dagli anni 30 dal governo Usa, Gli Stati Uniti contro Billie Holiday rielabora la narrazione sulla Holiday, concentrandosi più sulla sua sfida razziale che sulle sue miserie private.

 

Ma l'autentica fonte di energia della pellicola è la protagonista Andra Day, una figlia della California meridionale dagli occhi verdi, che all'anagrafe è Cassandra Monique Batie, ma che già nel nome d'arte che si è scelta allude a Billie Holiday, prendendone in prestito il soprannome che il sassofonista Lester Young aveva inventato per lei: "Lady Day".

 

Validamente affiancata da Trevante Rhodes (già protagonista di Moonlight) nei panni dell'agente infiltrato nella cerchia di Billie per raccogliere prove del suo uso di droghe, la performance di Day è memorabile.

 

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Andra cattura il portamento regale di Billie, accentuato dagli eleganti abiti amati dalla cantante (strepitosi i costumi di Paolo Nieddu) e con la sua voce morbida e setosa ricrea il potere ipnotico dell'ugola della Holiday. Un exploit del quale parliamo proprio con lei, mentre il film finalmente esce anche da noi il 5 maggio.

 

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Andra, un tour con Lenny Kravitz, due nomination ai Grammy, perfino un concerto alla Casa Bianca. Sullo schermo però l'avevamo vista solo nei videoclip e adesso, in un colpo solo, sono arrivati un Golden Globe e una nomination all'Oscar come migliore attrice. Tutto merito di Billie Holiday?

«La mia identità musicale nasce con Billie. Avevo 11 anni, frequentavo la scuola d'arte e studiavo le cantanti. Un insegnante mi consigliò di ascoltare la Holiday e io pensai "Chi diavolo è?". Poi l'ho sentita e la sua voce mi ha stravolta. Non somigliava ad Aretha, o a Whitney o a Etta James, ma mi stregava e non riuscivo a smettere di suonare i suoi dischi. Percepivo il sacrificio contenuto in quelle registrazioni. E mi sono innamorata della sua voce, che sembra sempre sul punto di sgretolarsi e mi ha fatto capire fin dove davvero può spingersi una cantante».

 

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Si dice che Lee Daniels fosse preoccupato a sceglierla per il ruolo di Billie, perché ammirava le sue doti vocali, ma temeva la sua inesperienza nella recitazione.

«Avevamo paura entrambi. Tutti ci dicevano che era la cosa giusta da fare, che Lee doveva rischiare e che io dovevo confrontarmi con un compito così arduo. In un certo senso alla fine ci siamo costretti a vicenda, per quanto entrambi pensassimo fosse una pazzia. Gli dicevo: "Dammi retta, fratello: è una pessima idea". Ma quando abbiamo cominciato a lavorare sulla storia di Billie è stato come se lei avesse detto che andava bene così, che era contenta, che la nostra devozione era il miglior punto di partenza per fare questa cosa insieme».

 

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Tra l'altro c'era una bella pietra di paragone: Lady Sings the Blues il film del 1972 con Diana Ross che diede vita a una Billie memorabile.

«Adoro quell'interpretazione di Diana e non avevo alcun desiderio di misurarmi con lei. Poi ho capito che il nostro non era un remake. Noi volevamo dire la verità sulla persecuzione di cui Billie è stata oggetto da parte del governo, su quanto la sua figura fosse diventata un'icona da abbattere a tutti i costi e su come la questione razziale per lei non fosse certamente un incidente di passaggio».

 

Cosa vorrebbe che il pubblico imparasse da questa nuova biografia di Billie?

«Vorrei che chi vedrà il film ringrazi Iddio perché Billie è esistita. Il movimento dei diritti civili ha tratto straordinario vigore dal suo passaggio, paragonabile a quello provocato dal martirio di Emmett Till (il ragazzino nero trucidato nel 1955 solo per aver rivolto dei complimenti a una ragazza bianca, ndr). Noi afroamericani abbiamo ancora bisogno di Billie e per questo dobbiamo raccontare la verità su di lei. Hanno cercato di cancellarla dai libri di storia, ma è troppo brava e amata perché ci riuscissero».

 

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Tra le sfide nell'affrontare questo ruolo c'è quello di prendere in carico Strange Fruit, la canzone più controversa nella storia della musica americana, per la sua denuncia del razzismo e del linciaggio sistematico dei neri.

«Dire che Strange Fruit è una bellissima canzone è uno schiaffo al motivo per cui è stata scritta. In realtà è una canzone terribile, ma ciò che la rende bella è la sua verità. Al tempo, ciò che metteva paura alle autorità era che la canzone raccontava la realtà: le sue parole non fanno sconti e si sa che in un sistema d'iniquità razziale costruito sull'inganno, la verità intimorisce. Strange Fruit parla al pubblico senza mediazioni, gli impone di spalancare gli occhi e perciò si batte per un'uguaglianza che, allora come adesso, è fumo negli occhi per i sostenitori della supremazia bianca».

 

Nel film si parla anche della relazione sessuale di Billie con l'attrice Tallulah Bankhead, aggiungendo un'altra dimensione al ritratto di una spericolata anticonformista.

«Billie è un simbolo di libertà. Per lei è istintivo battersi per i diritti che una società civile dovrebbe garantire a tutti. Ancora oggi per tanti afroamericani è un conforto identificarsi con lei, come lo è per tanti membri della comunità Lgbtq e per chiunque viva in condizioni di emarginazione. Billie è la lampante incarnazione di ''al diavolo l'autorità costituita!". È stata spesso dipinta come una povera donna di colore che si drogava, ma questa è solo la versione che certi poteri vogliono proporre di lei. Che invece non era una vittima, ma una donna forte, pronta a combattere per resistere all'ingiustizia».