Alberto Mattioli per la Stampa
In Italia, sarebbe come fare un film su Fellini o su Pasolini. E non per venerare ulteriormente i maestri, ma per prenderli in giro. Con l' aggravante che Jean-Luc Godard è ancora felicemente fra noi, benché ritirato e silente in Svizzera. Già pare che non avesse preso bene il libro di memorie dell' attrice Anna Wiazemsky, sua moglie dal 1967 al '70. Chissà il film che ne ha tratto Michel Hazanavicius (quello di The Artist , per intenderci), titolo Le redoutable , «il Temibile». Hazanavicius giura di avergli mandato la sceneggiatura e l' invito a vedere il film. Si dice che Godard abbia detto di avere una gran voglia di prendere a schiaffi Hazanavicius.
louis garrel come godard in le redoutable
Siamo nel 1967, la Nouvelle Vague ha una decina d' anni e Godard che l' incarna (l' attore è Louis Garrel, stessi occhiali e stessa zeppola) si gode il successo e la bella moglie Anne (Stacy Martin, deliziosa sia nuda che vestita, con prevalenza del primo look). Ma arriva il maggio '68. Godard diventa maoista, inizia a cercare la spiaggia sotto il pavé però ogni volta che va alle «manif» rompe gli occhiali, frequenta le assemblee contestatarie alla Sorbona dove finisce contestato, boicotta il Festival di Cannes, litiga con gli amici, si separa dalla moglie, insomma va in crisi.
La conferma svedese
E dire che lui la fantasia al potere l' aveva già portata. Più che temibile, appare sgradevole e un po' ridicolo: egoista e influenzabile, narcisista ma bisognoso di approvazione. Insomma, non ne esce bene. A Cannes, poi, che è come fare battute sul Papa in Vaticano. Peraltro, ce n' è anche per Bernardo Bertolucci e Marco Ferreri, dipinti come due macchiette. Ma almeno Hazanavicius non è sciovinista: concia per le feste pure l' altra gloria nazionale Jean Vilar, che in Francia sta al teatro come Godard al cinema.
Peggio. Il film non solo sfotte Godard, ma anche il Sessantotto o almeno, viste con il senno e i disastri di poi, le sue assurdità più palesi. Qualche reduce di professione si è già indignato, per la verità meno di quanto si potesse temere, e forse più in Italia che in Francia. Però viene da pensare che il festival pratichi davvero quella «libertà» su cui tromboneggiava la cerimonia d' apertura, se ci si possono irridere totem come questi.
Lo conferma il film svedese The Square di Ruben Östlund, storia del direttore fighetto di un museo d' arte contemporanea a Stoccolma che finisce per perdere tutto, lavoro e reputazione dopo una serie di complicate vicende iniziate con uno scippo. Anche Östlund mira dei bersagli grossi: l' arte contemporanea più modaiola, i comunicatori che le sparano sempre più grosse, i media che prendono sul serio l' una e gli altri.
E perfino il sancta sanctorum delle anime belle: il politicamente corretto (in Scandinavia, poi). Vedere per credere la scena dove la conferenza del critico viene interrotta dalle sconcezze di un ascoltatore vittima della sindrome di Tourette. Segue surreale dibattito su cosa sia più corretto rispettare: la sacralità dell' Arte o la malattia dell' infelice?
Un comunista non pentito
E poi ieri il Festival ha inflitto un bizzarro documentario del 91enne Claude Lanzmann, regista di quel monumento che è Shoah . S' intitola Napalm e il soggetto in teoria è la Corea del Nord. In pratica, inquadrato da una camera fissa, Lanzmann racconta nei minimi dettagli la sua storia d' amore con una nordcoreana durante la sua visita nel '58, argomento, diciamo così, di moderato interesse per il resto del mondo.
Ma, da comunista non pentito, parla del regime nordcoreano senza l' abituale esecrazione. Anzi, se non con simpatia, almeno con neutralità (non pervenuti i gulag, per esempio). Sicuramente sbaglia, ma lo fa. Segno che al Festival, piaccia o non piaccia, la libertà intellettuale c' è. E, visto che oggi, a forza di anticonformismo obbligatorio, impera il conformismo, che ogni tanto Cannes possa essere anticonformista davvero non è poco.