IL CINEMA DEI GIUSTI - “BARDO. CRONACA FALSA DI ALCUNE VERITÀ”, UNA SORTA DI FELLINATA ALLA 8½ DI ALEJANDRO GONZÁLEZ IÑÁRRITU, FILMONE D’AUTORE TARGATO NETFLIX CHE PURE TANTO CI INTERESSÒ A VENEZIA CI APPARE OGGI, DOPO SOLO DUE MESI, COME UN FILM DISTANTE E NON PROPRIO MEMORABILE, MALGRADO ABBIA GRANDI MOMENTI DI CINEMA" - "INSOMMA E’ UN GRANDE SPETTACOLO, MA HAI GIÀ FATTO “BIRDMAN”, NO? CHE BISOGNO HAI DI FARE ANCHE “BARDO”?  E ALLA FINE TI CHIEDI DAVVERO COSA VOGLIA RACCONTARE INARRITU CON QUESTO FILM…" - VIDEO

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Marco Giusti per Dagospia

 

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Va detto che i film che non funzionano ce li scordiamo in gran fretta. Anche “Bardo. Cronaca falsa di alcune verità”, una sorta di fellinata alla 8 ½ di un regista prestigioso come il messicano Alejandro González Iñárritu, che pure tanto ci interessò a Venezia, malgrado i suoi interminabili 174’ di durata, filmone d’autore targato Netflix che avrebbe dovuto funzionare esattamente come “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino o “Roma” di Alfonso Cuarón, cioè uscita limitata in sala, esplosione sulla piattaforma e corsa agli Oscar, ci appare oggi, dopo solo due mesi, come un film distante e non proprio memorabile, malgrado abbia grandi momenti di cinema e riprese in 70 mm che in sala avranno certo il loro perché.

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 Con questo “Bardo”, il premiatissimo (4 Oscar!) Alejandro González Iñárritu, il regista di “Birdman”, “The Revenant”, “Biutiful”, tornava a casa, nel senso del Messico, dove non girava da vent’anni, e tornava al fellinismo di “8 ½” (genere che forse andrebbe vietato o limitato da qualche codice morale cinematografaro) alternando grandiose e ricchissime sequenze fotografate dal fido Darius Khondji, con piani sequenza memorabili e eccessi virtuosistici di ogni tipo a sequenze un bel po’ meno riuscite e magari di cattivo gusto che regista e direttore della fotografia magari si potevano risparmiare.

 

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ll tutto per raccontare, attraverso gli occhi di un giornalista diventato documentarista celebrato in tutto il mondo, da anni di casa in America, tal Silverio, interpretato da un simil-Cacciari Daniel Giménez Cacho (“Memoria”) appena tornato a Città del Messico, un po’ di autobiografismo e un bel di storia del suo martoriato paese, passando dai massacri di Herman Cortes ai difficili rapporti con gli Stati Uniti, a cominciare dalla guerra iniziata 175 anni fa. Tutto ciò accade, è questa la trovata più divertente del film, proprio mentre l’Amazon di Jeff Bezos, non Netflix per carità, si sta comprando tutto il Basso Messico per una manciata di monetine d’oro senza sparare un solo colpo.

 

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Per non sbagliare mettiamoci dentro anche altro. Lo strapotere dei media, quello del capitalismo americano, l’identità-non-identità dei messicani, popolo migrante per definizione, il sentirsi parte indio, parte “scuretto”, una meravigliosa intervista a un capo dei narcos acculturato che viene applaudito più di un leader grillino non acculturato di una decina d’anni fa.

 

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E i problemi di famiglia. Una figlia a Boston, Ximena Lamadrid, che è stanca di mangiare cibo di plastica, un figlio che vuole parlare solo inglese, una bellissima moglie, Griselda Siciliani, che lo ama (la scena d’amore con lei e il loro ballo sono effettivamente scene favolose) ma sa che può contare su “100 uomini pronti a ballare con lei” (caramba!), un figlio nato che ha vissuto solo per 30 ore che ancora tormenta i ricordi dei genitori, le ombre di un padre morto otto anni prima e di una madre malata, una serie di amici che gli rimproverano qualsiasi cosa, a cominciare ovviamente dal successo.

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Il barbuto Silverio deve ricevere un premio dei giornalisti a Città del Messico e un premio a Los Angeles, ma si ostina a scappare da tutto e da tutti come il Marcello Mastroianni di “8 ½”. Ti pareva.  Però Iñárritu e il suo sceneggiatore, Nicolas Giacobone, hanno un’idea geniale di sceneggiatura. Il documentario per cui Silverio verrà premiato è anche il film che stiamo vedendo, “Bardo”, un film che mescola realtà e fantasia, e quindi i personaggi parlano della parte precedente rispetto a quello che stiamo vedendo come un già visto, sia loro che di noi spettatori. Altro virtuosismo autocannibalico.

 

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Non parliamo poi dell’incredibile piramide di morti indios dei conquistadores spagnoli capitanati da Cortés che vediamo sulla piazza più famosa di Città del Messico. Una scena che da sola vale forse il prezzo del biglietto, ma che Jodorowsky ha già fatto tanti anni fa. Alla fine quello che vediamo è soprattutto un polpettone, come si sarebbe detto anni fa, con delle parti anche bellissime, come l’inizio con un’ombra in volo lungo il confine con l’America, omaggio al popolo migrante, e con trovate che (scusate ma) non mi piacciono affatto, come i desaparecidos che si materializzano da zombies nel centro di Città del Messico.

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Per non parlare della fellinata della porno star Tania con due uova fritte spiaccicate sulle tette che Silverio/Marcello succhierà sotto il letto di quando era ragazzino. Aiuto! Ma Fellini, con tutto il suo machismo riminese novecentesco, non lo avrebbe mai fatto. Insomma, si può piangere, si può guardare a occhi spalancati. E’ un grande spettacolo, anche se forse non è il mio spettacolo. Hai già fatto “Birdman”, no?, che bisogno hai di fare anche “Bardo”?  E’ un grande spettacolo, però, con tanto di visita agli studios di Churubusco dove venne girato “I magnifici sette” di John Sturges.

 

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E alla fine ti chiedi davvero cosa voglia raccontare Inarritu con questo film elefante che, come il bambino che non vuole nascere, preferisce nascondersi dentro il ventre della mamma. Ma sbaglio o anche Marcello vedeva in sogno il padre morto? Pronto per il lancio all’Oscar, viene distribuito in America e in tutto il mondo da oggi in sala e un mese dopo sulla piattaforma.

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