IL CORTOMETRAGGIO SPOT SULLA CALABRIA, FIRMATO DA GABRIELE MUCCINO, E’ COSTATO 1,7 MILIONI DI EURO - LA DIFESA DI “LIBERO”: “VIENI FUORI UNA REGIONE PHOTOSHOPPATA. COI CALABRESI IN BRETELLE E COPPOLE A BIGHELLONARE E I VECCHIETTI A GIOCARE A CARTE; SONO CLICHÉ L'ASINELLO NEI CAMPI E LE CLEMENTINE MA PUR SEMPRE DI SPOT SI TRATTA. PER VENDERE UN PRODOTTO BISOGNA UN PO' DEFORMARE LA REALTÀ, A COSTO DI FARNE UNA CARTOLINA: SI VENDE LA CALABRIA CHE VORREMMO, NON QUELLA CHE ABBIAMO”
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Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano”
Chissà cosa avrebbero pensato gli scrittori Corrado Alvaro e Giuseppe Berto, l'uno calabrese di nascita e l'altro di adozione, del cortometraggio di Gabriele Muccino, Calabria terra mia, presentato alla Festa del Cinema di Roma e dedicato alle bellezze della Punta dello Stivale.
Chissà se avrebbero ritrovato, l'uno, il fascino mitologico di quella terra, animata da realismo magico, e l'altro il suo carattere selvaggio, schivo e assetato di infinito, che portò lo scrittore veneto, migrante all'incontrario, a sceglierla come posto di ristoro per il suo male di vivere. Forse non avrebbero trovato nulla di tutto ciò, ma avrebbero condiviso le critiche che, da parte di intellettuali e utenti social, sono state mosse al corto, sostenuto da Regione Calabria, con un finanziamento di 1 milione e 700mila euro.
E avrebbero ammesso che, anziché l'immagine di un luogo reale che non deluda poi i turisti, come vorrebbe l'intento promozionale della pellicola, viene fuori il ritratto di un posto inesistente, proiettato in un passato ormai perduto o in una dimensione idilliaca, edulcorata e pertanto falsa.
Una Calabria ipotetica ma bugiarda; una Calabria non fotografata nella sua bellezza, ma al più photoshoppata. In effetti, guardando il corto interpretato da Raoul Bova e la sua compagna Rocío, è facile trovare stucchevoli le scene dei loro pranzi d'amore al tavolino, coi calabresi in bretelle e coppole a bighellonare e i vecchietti a giocare a carte, mente una musica in modalità Il Padrino fa da sottofondo; e viene spontaneo considerare una somma di cliché l'asinello nei campi e le clementine estive, le masserie con le tende ricamate e gli agrumi sbucciati, le distese di grano e le spiagge bagnate da acque cristalline.
In modo altrettanto immediato ti appare basica e banale la sceneggiatura con frasi tipo «Siamo il mare, siamo il sole, siamo la vita che ci fa sentire bene» e con qualche clamoroso strafalcione: «Dove vuoi che ti porto?», dice Bova, dimenticandosi, come un Di Maio qualunque, che si dovrebbe dire «dove vuoi che ti porti?».
Va' dove ti "porto" il cuore... Ed è anche normale che, da parte dei detrattori, si elenchino i mali calabresi furbamente nascosti così come le bellezze vere e ignorate nel corto: la Calabria filosofica di Pitagora, Telesio e Campanella, la Calabria religiosa di San Francesco da Paola e San Giovanni in Fiore; la Calabria naturale degli "elefanti" in pietra e la Calabria tecnologica della "Silicon Valley" tra Cosenza e Rende. È tutto vero, ma chi muove queste critiche dimentica che pur sempre di spot si tratta, che per vendere un prodotto bisogna un po' deformare la realtà, scegliere solo alcuni aspetti ed enfatizzarli a costo di farne una cartolina, e insieme creare un racconto da fiction che funga da sogno: si vende la Calabria che vorremmo, non la Calabria che già abbiamo.
Alimentare la dimensione onirica, non è questa la missione del cinema? Per farlo, bisogna rinunciare alla complessità, alla narrazione troppo approfondita, sennò sarebbe un documentario culturale, ma anche alla chiave troppo investigativa, sennò sarebbe un'inchiesta di denuncia delle brutture, dalla criminalità organizzata alle infrastrutture mancanti fino alle strutture ricettive inadeguate. Non puoi chiedere il certificato di autenticità a un corto, peraltro girato da un regista romano, con un attore romano e una spagnola. Per quanto ci riguarda, una cosa però l'avremmo cambiata di sicuro: al posto di Bova, avremmo scelto uno di Bovalino. Un autoctono che parlasse in calabrese e sbagliasse meno i congiuntivi.