1. DAGOSPIA: VENTUNO ANNI VISSUTI IN BARBA AI GIORNALONI, AI POTERI FORTI, ALLE QUERELE
2. FERNANDO PROIETTI RIPERCORRE ANNI DI SUCCESSI, CADUTE, SCOOP, BOICOTTAGGI, CALUNNIE
3. EDMONDO BERSELLI: ‘’IL D’AGOSTINO CHE DA SCOOPISTA ASSURGE A PUNTO DI RIFERIMENTO PER L’INFORMAZIONE TOUT COURT. UNA VOLTA C’ERA IL PENSIERO FORTE. ADESSO C’È DAGO”
4. ALDO GRASSO SUL 'CORRIERE': “D’AGOSTINO NEL 2000 INAUGURA IL SITO DAGOSPIA CHE, DIETRO IL PARAVENTO DEL GOSSIP, SI OFFRE COME L’OVER THE TOP DEL GIORNALISMO ITALIANO”
Fernando Proietti per Dagospia
Caro Roberto,
l’onore che mi riservi di celebrare con qualche riga i 21 anni di Dagospia è davvero un compito che forse avrebbe meritato altri ben più autorevoli del sottoscritto che qui ricorderò a ragione. E non lo dico per falsa modestia.
Dunque, mi considero solamente l’amico-collega al quale hai raccontato confidenze e timori nell’accompagnarti nella lunga e faticosa traversata del deserto che hai dovuto affrontare in solitaria. E alla maniera epica di Bartali e Coppi, ho saputo offrirti – io nella parte del Ginettaccio di “è tutto da rifare” -, appena una borraccia riempita di qualche buon consiglio e alcune ideuzze. Penso, in primis al “Diario di Cuccia” (sobillatore Cossiga) e al “Cafonal”, grazie al grandangolo feroce di Mario e Umberto Pizzi.
A volte partecipe persino di qualche scoop. In una occasione addirittura con la complicità - pensa un po’ -, di Cesare Romiti, ai tempi patron del “Corriere della Sera”: l’uscita improvvisa di Tronchetti Provera da Telecom con l’arrivo al vertice di Guido Rossi. Una anticipazione resa possibile dall’autocensura (o codismo peloso) dei giornaloni, non soltanto per tua bravura. E grazie a quella sorta di catena di Sant’Antonio costruita e manovrata abilmente da te se tra i ‘’porter’’ di notizie potevi contare sulle stesse “vittime” illustri di Dagospia.
Nelle redazioni dei quotidiani c’era la caccia alle spie, che sottobanco avrebbero passato le informazioni al sito dissimulando perfino il suo linguaggio urticante e irriverente. Anch’io ci provo con questa lettera delle rimembranze. Senza immaginare, i presunti spioni da scrivania, che spesso erano i loro direttori, per salvarsi la faccia (e l’onore perduto) nella trincea di carta, ad intercedere con Dagospia qualche grazia.
Una partecipazione fraterna dunque la mia. Rafforzata dalle riserve - e a volte dalle critiche (nulla di trash-endentale, per carità -, nell’incoraggiarti a portare l’asticella del tuo sito verso l’Alto). Insomma, a cercare un nuovo equilibrio informativo dopo “Alta Portineria” o il “net-tegolezzo” degli esordi. A stare al bel neologismo coniato da Edmondo Berselli.
Già, il D’Agostino “che da ideologo, testimonial e scoopista assurge a punto di riferimento per l’informazione tout court (…) Mettiamola così, una volta c’era il pensiero forte. Adesso c’è Dagospia”, aggiunge l’autore, ahimè scomparso, di “Post Italiani” e “Venerati maestri”.
Due operette morali meritevoli di ristampa da parte della Mondadori.
Per Berselli, una volta aver travalicato il gossip alla “Novella 2000” di cui era incriminato (a torto) il sito, Dagospia era riuscita a “inventare una sovra-realtà”. Cos’altro aggiungere all’analisi acuta di Berselli? Il recentissimo giudizio di Aldo Grasso sul Corriere: “D’Agostino nel 2000 inaugura il sito Dagospia che, dietro il paravento del gossip, si offre come l’over the top del giornalismo italiano”. Nonostante sia difficile stabilire cosa sia il pettegolezzo, che per Umberto Eco resta pur sempre “una virtù politica”.
Nel frattempo Dagospia era snobbata - anzi per anni ignorata o peggio boicottata - dai media tradizionali e dalle istituzioni pubbliche e private. Fino a negare il suo accesso ai pc con la ridicola accusa di pornografia. Gli stessi quotidiani che riprendevano le notizie-primizie senza citarne la fonte.
Diciamocela tutta, al vizioso cultore del trash e del porno che nella tv di Arbore sbeffeggiava l’insostenibile leggerezza di Kundera e l’edonismo reaganiano non è stato risparmiato davvero nulla in questi ultimi ventuno anni: censure, calunnie e querele.
L’editore romano del “Messaggero”, Franco Caltagirone, paparazzato dai Pizzi in compagnia di una giovane donna, ordinò al suo direttore di non citare mai il nome D’Agostino, che del giornale era stato un collaboratore da prima pagina.
Franco Tatò, allora numero uno di Enel, che aveva tentato di mettere la sua compagna, Sonia Raule, alla guida della futura La7 alla fine lo perdonò. “Forse Roberto mi ha evitato guai maggiori”, mi confidò l’ex Kaiser di Mondadori. Silvio Berlusconi, che all’inizio del 2000 con Publitalia assicurò un minimo pubblicitario al sito non chiese mai nulla in cambio. E il Cavaliere nero, il “Pompetta” non fu certo risparmiato dalle bordate del sito.
E il “chi lo paga”? intanto rimbalzava nella città dove tutto a un prezzo (si compra) anche tra chi si era presentato a casa tua con un assegno per metterti la mordacchia. Ricevendone in cambio uno sdegnato rifiuto.
La Maria-saura Angelillo, che contava entrature al Viminale nei servizi segreti, non è mai riuscita a conoscere il nome del suo invitato di pietra che spifferava a Dago le sue cene d’affari nel villino di Piazza di Spagna. Chi è Mister X? Ah saperlo? L’identità dei querelanti è nota, e dovrebbero fare ammenda nell’aver reclamato i soldi a un sito che si autofinanzia.
Tant’è, che per uscire dal cono d’ombra e dal venticello delle calunnie in cui ti avevano cacciato (compresi alcuni cari amici che ti evitavano o provavano imbarazzo a sederti con te al ristorante) ti sei sempre difeso sostenendo che non facevi gossip, ma informazione alta e bassa. E l’unico padrone del sito e redattore unico, a costo zero, eri tu.
“Nel suo insieme – ha osservato il giornalista di costume Filippo Ceccarelli a proposito di quella delazione ottica di “Cafonal” che prendeva a modello, in chiave politicamente neutrale e con un occhio al patinato a “Vogue”, il “Borghese” destrorso di Gianna Preda e Mario Tedeschi – può assurgere al rango di un trattato di sociologia della visibilità di epoca di arcaismi post moderni”.
Già, la Roma godona, potentona dei morti di fama di quel primo decennio del terzo millennio che il cine-fissato Marco Giusti titolò “La truce vita degli anni Duemila”. Per il sommo Eugenio Scalfari, il mondo di Cafonal (senza nominarlo) segnava anche la morte dei Vip d’antan (finiti nella Rete): “Le loro fortune hanno avuto come piedistallo la società in technicolor dei settimanali in rotocalco e della televisione. Ebbene – concludeva -, il Web metterà quel tipo di strumenti informativi ai margini del mercato e con essi gli stili di vita che ne derivano e i protagonisti che li rappresentano”.
Con la nascita dei social (Instagram, Facebook, Twitter) a far da specchio ustorio e narcisistico dei morti di fama a colpi di selfie, scandisce la stessa fine dello storico e inimitabile “Cafonal”. Del resto nel fotoromanzo kitsch di “Cafonal”, la sua forza reggeva proprio nell’assenza del buon gusto (o signorilità) dei suoi attori (e comparse). Quasi a voler dare conforto al filosofo del pessimismo Emile Cioran: “Il gusto, di fatto, è l’appannaggio degli oziosi e dei dilettanti, di coloro che, avendo tempo in eccesso, lo impiegano in sottili inezie…”.
A Roma, però, il “fare caciara” come regola di vita e del divertimento serve solo a confutare l’altra faccia, un po’ ipocrita, del “non facciamoci riconoscere” che raccomandavo le nostre madri quando uscivamo di casa.
“Ma davvero siamo così orribili, così sfatti, così volgari, così cadaveri, così ultrasupertopcafonastri?”, s’interrogava la sublime Natalia Aspesi. Ma nell’Urbe, le avrebbe replicato il soave Arbasino, da sempre la caciara, la battuta volgare e greve, “le paraculate contro quegli stronzi è una intimazione di grandezza…”.
Oramai in Italia i panni sporchi si lavano in trattoria o sui social, non in casa. E Dagospia nient’altro è stato (ed è) che lo specchio, a volte deformante, che riflette questo pianeta informativo invaso e scombussolato dall’offerta digitale. E gli specchi, ci ricorda il poeta Borges, “hanno qualcosa di mostruoso”.
E nello specchiarci a ritroso in questi ultimi ventuno anni con indossando la tuta dei dagonauti impertinenti, non possiamo iniziare dall’anno Duemila che – come scrissi ironicamente tempo addietro sulla nascita del sito - aveva preso a camminare minaccioso tra i timori del Millennium Bug per andare incontro al peggio: l’esordio in tv del Grande Fratello e di Dagospia on line.
Aspettando l’Apocalisse che verrà, un giorno di primavera del 2000 invitasti a colazione pochi amici. Da poco avevi “rotto” la tua collaborazione all’Espresso. Imprudente, avevi pestato lo zampone dell’Avvocato. Dandogli dello iettatore. Fine della rubrica. E porte chiuse nei giornali.
Nonostante la tua scrittura al vetriolo, rasente il nonsense e il calembour, sembrava la sola ad accordarsi con il grande disordine dell’Italia Cafonal, ancora sommersa. Ma tutti facevano finta d’ignorarla pur rientrando nella categoria degli italiani che secondo Ennio Flaiano “non erano una razza, ma una collezione”.
L’idea di Cafonal sbocciò nelle dune di Sabaudia, sede estiva del sito, dove la linea telefonica era più zoppicante dei conti in rosso di Telecom. Tanto per fare il verso a “Capital” alla cui direzione era stato chiamato il caro amico Pietro Calabrese. E tra un cazzeggio e l’altro, sul finire del 2005, è la morte di Cuccia a suggerire quel “Diario impossibile”, che a mio sentire segna un punto di svolta nella storia di Dagospia.
Il sito si trasforma in un network dove nel gioco duro finiscono manager, banchieri, direttori di giornali. Sbocciano i Poteri marci. D’incanto, evidenzia ancora Berselli, tutti i protagonisti “della nostra società contemporanea esistono in quanto figurine di Dagospia. Un gioco di prestigio, et voilà”.
Ma se Barbara Palombelli non aveva dubbi: “apri un sito e scrivi quello che vuoi”, l’impresa sembrava impossibile agli occhi degli scettici. Una scommessa al limite dell’impossibile. Incrociando lo sguardo dolce di tua moglie Anna, pensavo perplesso che avrebbe fatto la fine della cameriera di Balzac: legarti al letto per allontanarti alla fatica del lavoro.
Ma ormai era impensabile che potessi sfuggire da quella tentazione. E l’ho capito meglio oggi leggendo il saggio “Sulla libertà” (Einaudi) del professore di Harward, Cass R. Sunstein: sono i “pungoli” o “nudges” che possono indicarci la via della libertà.
Ma – prosegue – tutto ciò non basta se non siamo in grado di orientare la bussola nella direzione giusta in cui vogliamo andare. Riusciremo a sopravvivere nella giungla informativa in cui abitiamo e dove come il Selvaggio del “Mondo nuovo” di Adous Huxley gridiamo: voglio la libertà, voglio la bontà, voglio il peccato? Ah saperlo…