EU-GENIO E SREGOLATEZZA - PIÙ CHE UN GRANDE GIORNALISTA, SCALFARI È STATO UN INFLUENTE CAPO PARTITO. LA SUA OSSESSIONE FU QUELLA DI GUIDARE LA SINISTRA ITALIANA ATTRAVERSO I GIORNALI CHE DIRIGEVA. IL SUO TALENTO PIÙ AUTENTICO FU PERÒ L'IMPRENDITORIA GIORNALISTICA - NEL 1989, CEDETTE A CARLO DE BENEDETTI LE SUE QUOTE DI ESPRESSO E REPUBBLICA PER 93 MILIARDI DI LIRE (CARACCIOLO NE PRESE 300) - NEL 1968, PER SFUGGIRE ALLE NOIE GIUDIZIARIE DI UNA CAMPAGNA DI STAMPA AZZARDATA SUL GOLPE DEL GENERALE DE LORENZO, DIVENNE DEPUTATO SOCIALISTA - NEL 1971, FU CAPOFILA NELLA SCIAGURATA GOGNA AL COMMISSARIO LUIGI CALABRESI…
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Giancarlo Perna per “la Verità”
Tra le massime che Eugenio Scalfari coniò nella sua lunga esistenza, questa: «Gli italiani celebrano i morti con ridondanza e disprezzano il genio dei vivi». Farò l'opposto. Non lo celebrerò ora che se n'è andato alla bella età di 98 anni e ricorderò invece quanto di notevole ha fatto in vita, con molto ingegno e qualche mezzuccio.
Più che un grande giornalista, Scalfari è stato un influente capo partito. La sua ossessione fu quella di guidare la sinistra italiana attraverso i giornali che dirigeva. La sua voluttà, essere l'ispiratore dei leader che lo consultavano segretamente, sperando di averne l'appoggio nei chilometrici editoriali. Il suo talento più autentico fu però l'imprenditoria giornalistica.
Ha lasciato l'impronta sull'Espresso e La Repubblica, il rotocalco e il quotidiano di maggiore successo nati nel dopoguerra. Del primo fu cofondatore, longevo direttore, artefice della sua seconda vita in formato quaderno. Dell'altro, fu il fondatore e l'anima per 20 anni (1976-1996), facendone in pochi lustri il solo vero concorrente del Corriere della Sera. Come giornalista, la notorietà di Scalfari fu tutta italiana.
Come imprenditore dell'informazione, superò le frontiere nazionali. Raccontava, con la civetteria che non gli è mai mancata, che il direttore dell'Indipendent, incontrandolo per la prima volta, gli si presentò dicendo: «Io sarei lo Scalfari d'Inghilterra».
Negli ultimi anni, ha pubblicato libri di riflessioni credendo, come accade con l'età, che le proprie esperienze interessino il prossimo. Ne ho letto recensioni entusiaste che gli stessi firmatari, parlandone a quattr' occhi, ridimensionavano. Ha mantenuto fino all'ultimo la rubrica domenicale sulla Repubblica, ribattezzata «lenzuolata» per la vastità (12.000 battute).
Non aveva più l'eco degli anni migliori, relegati ormai al secolo scorso, ma ha continuato a suscitare commenti quasi ogni settimana. Talvolta ironici per qualche sfondone, talaltra per contraddizioni con tesi precedenti. Sono cose che a Scalfari sono sempre capitate e non ci ha mai badato. «La coerenza», diceva, «è la qualità degli imbecilli».
Ai giornalisti di grido, specie se laici, piace civettare col Papa. Riceverne le confidenze e intrufolarle negli articoli, è un'irresistibile tentazione. Ci cascò Indro Montanelli che cenò talvolta con Karol Wojtyla e ne scrisse fingendo di non volerlo fare. Quando Francesco salì sul Soglio, Scalfari lo monopolizzò.
Nelle «lenzuolate» ha citato spesso i pensieri che si erano scambiati e ha pubblicato 3 interviste. Non una è andata liscia. Per quelle del 2013 e 2014, la Santa sede ha smentito i virgolettati. Lui ha replicato che non registrava, né prendeva appunti e che faceva così da mezzo secolo. Perciò aveva scritto ciò che ricordava «come se fosse uscito dalla bocca del Papa». Con l'ultima del 2018, il Vaticano smentì addirittura che ci fosse stata l'intervista. Sconcertante? Forse. Ciò che conta, è che parlare con il Papa gli era stato di conforto avvicinandosi all'aldilà. Troppo ateo per rivolgersi direttamente a Dio, abbastanza politico da farlo col suo Vicario sperando in uno sconto.
Nel 1942, il diciottenne Scalfari era fascista, nel 1943 antifascista, nel 1945 azionista, nel 1946 votò monarchia, nel 1952 era liberale, nel 1955 radicale, ecc. Negli anni Sessanta, considerava il comunismo superiore all'Occidente. «Tutti i luoghi sulla maggiore efficienza dell'iniziativa privata», scriveva sull'Espresso, «sono castelli in aria di fronte ai risultati dell'economia sovietica». Auspicava che l'Ovest imitasse l'Est, sostituendo lo Stato ai gruppi privati. Se no, ammoniva, «il risultato della gara è già deciso in favore dell'Urss». Nel 1969, si batté per l'uscita dell'Italia dalla Nato. Nei decenni successivi, senza rinnegare nulla, sostenne l'opposto.
Nel 1968, per sfuggire alle noie giudiziarie di una campagna di stampa azzardata sul cosiddetto golpe del generale Giovanni De Lorenzo, divenne deputato socialista.
Suo protettore fu Giacomo Mancini, suo detrattore Bettino Craxi. Nel 1971, fu capofila nella sciagurata gogna al commissario Luigi Calabresi. Firmò, con altri 756 del bel mondo, una lettera aperta pubblicata sull'Espresso, in cui Calabresi era accusato della morte di Giuseppe Pinelli, l'anarchico precipitato da una finestra della questura di Milano.
Per gli extraparlamentari, che detestavano il commissario, fu il segnale di via libera. L'anno successivo, i killer di Lotta continua lo assassinarono. Decenni dopo, Scalfari dirà che quella firma «fu un errore» e cercò di rimediare appoggiando il figlio di Calabresi, Mario, nella sua sontuosa carriera giornalistica. Oggi, Calabresi jr ha preso il posto che fu di Scalfari alla guida di Repubblica. L'alleanza innaturale tra l'accusatore del padre e l'orfano ha sempre gettato un'ombra sull'idillio.
Barbapapà, questo il nome che si guadagnò nelle redazioni per quell'onore del mento che gli dava un'aria di profeta, non ha mai avuto una visione dell'Italia ma diverse e altalenanti. Il suo moto è stato: «Quel che giova a me, è giusto per tutti». Ha esaltato personaggi in auge, ripudiandoli nella disgrazia.
Corteggiato chi poteva avvantaggiarlo, attaccandolo se lo deludeva.
Quando, nei primi anni Settanta, ebbe l'idea di un quotidiano, si mise alla caccia di finanziatori per la futura Repubblica. Circuì prima Eugenio Cefis e ne sciolse peana: «Uomo di vaglia, intelligente, valido». Alla fine, Cefis non volle saperne. Scalfari reagì martellandolo per mesi sull'Espresso con il fine di distruggerlo.
Passò poi a Michele Sindona che gli fece balenare un consistente aiuto se avesse conquistato la Bastogi, società di Cefis, su cui aveva lanciato l'Opa. Ingolosito, il deputato Scalfari presentò un'interrogazione parlamentare di totale appoggio all'arrembaggio in Borsa: «Favorisce oltre 30.000 azionisti, unifica il mercato finanziario» e così via.
Letto il soffietto, Riccardo Lombardi, che del Psi era il responsabile economico, lo convocò dicendo: «Onorevole Scalfari, ricordi che per impegnare il partito deve chiedere l'autorizzazione. Il Psi non condivide il suo appoggio a Sindona». Quando il banchiere siciliano cadde in disgrazia, fece dietrofront, cominciando a prendersela con Giulio Andreotti che lo aveva pure lui appoggiato: «Che Sindona», scrisse, «abbia potuto per qualche tempo colpire la fantasia dei giornalisti, è comprensibile. Ma è inammissibile che un grande partito abbia accettato soldi per patrocinare le sue richieste».
Giustifica i giornalisti, ne tace i nomi e si impanca come se non ci avesse impresse le impronte digitali Finalmente, lui e il suo socio, Carlo Caracciolo, trovarono i mezzi per fare La Repubblica. Successivamente, entrò come finanziatore, Carlo De Benedetti. Scalfari lo turibolò come «cavaliere bianco della finanza italiana», andando a lungo d'accordo con lui, prima che in anni recenti subentrasse il gelo tra loro.
Nel 1989, gli cedette le sue quote di Espresso e Repubblica per 93 miliardi di lire. Altrettanto fece Caracciolo che ne prese 300. Così, diventato un Creso a 65 anni, Eugenio iniziò la sua feconda vecchiaia. Fino a ieri, quando se n'è andato dal mondo che ha calcato con intelligente destrezza.