FERRARI (GIAN ARTURO) DI CARTA – “CI SIAMO CONCENTRATI SUL MIRACOLO ECONOMICO, MENO SU COME E’ STATO OTTENUTO. NESSUNO RICORDA QUANTO SIANO STATI DURI GLI ANNI SUCCESSIVI AL CONFLITTO. FATICOSI E PERFINO UMILIANTI!" - IL DEBUTTO NEL ROMANZO DI UN INTELLETTUALE CHE HA DIRETTO GLI ANNI D'ORO DELLA MONDADORI: “LA SCRITTURA HA FUNZIONATO COME FARMACO”
-Antonio Gnoli per “la Repubblica - Robinson”
Resto un po' sorpreso nell' apprendere che Gian Arturo Ferrari ha fatto il suo esordio nella narrativa. L' uomo che per un paio di decenni ha inciso in modo determinante sul mondo editoriale, che ha trattato con scrittori, saggisti, intellettuali, decidendone spesso le sorti, che ha saputo stare sul mercato del libro con la durezza che si addice ai grandi manager (capisco che la parola può suscitare qualche imbarazzo) è passato dall' altra parte della barricata. La domanda ovvia è: chi glielo ha fatto fare? Poi però - dopo aver letto Il ragazzo italiano (il suo romanzo edito da Feltrinelli) - capisci che c' è qualcosa di più di una ipotetica vanità che porta a strafare e magari a schiantarsi sul muro della critica.
O a non sapere se, nel dubbio, chi legge giudicherà lo scrittore o il manager, l' uomo con i suoi tormenti o il professionista con le sue certezze. C' è un punto segreto, indicibile, che Ferrari ha inteso toccare e restituire sotto forma di memoria, ragione e sentimento. E allora forse vale la pena farsi raccontare chi si nasconde dietro le sembianze di un protagonista, un figlio della guerra che in famiglia chiamano Ninni e che, con qualche variazione sentimentale, è niente altro che Gian Arturo.
Riprendo la domanda: chi te lo ha fatto fare?
«Ti rispondo: giudica il libro, non il gesto o il desiderio che lo ha determinato».
D' accordo, ma il tuo non è un esordio qualunque e non ti sei neanche nascosto dietro uno pseudonimo.
«So perfettamente i rischi che corro. Ma la domanda è un' altra: cosa volevo raccontare e per chi?».
Aggiungo: perché?
«Il perché è abbastanza semplice: c' era una storia, la mia, che avevo l' ambizione di raccontare andando oltre i fatterelli privati. Ho rovistato in un' epoca che ho visto con i miei occhi e che considero un mondo perduto».
Ti riferisci al periodo della guerra?
«Ho 76 anni e ne sono il frutto. Ora tutti dicono che dopo la tragedia ci fu la rinascita dell' Italia. In parte è vero. Ma si dimentica di entrare nei dettagli che illuminano una storia diversa: fatta di durezze, viltà, illusioni, violenze e, ovviamente, dell' aspra generosità dei protagonisti. Non puoi farti un' idea di un film dai titoli di coda. Ho provato a raccontare un pezzo di storia che è mia e non è mia e che è all' origine di ciò che siamo diventati. Con un' avvertenza».
Quale?
«Ci siamo concentrati sul famoso miracolo italiano, molto meno su come quel miracolo è stato ottenuto. Nessuno oggi ricorda quanto siano stati duri quegli anni del dopoguerra. Faticosi e perfino umilianti per chi ne ha preso parte».
Potevi limitarti a scrivere un saggio di storia, ma hai scelto il romanzo.
«Provengo dal mondo delle descrizioni oggettive. Laurea in lettere classiche specializzazione in Storia della Scienza. Non mi sarebbe costato nulla dedicarmi a uno scavo sociologico e storico sugli anni del dopoguerra. Ma non era ciò che volevo. L' urgenza era mettere in connessione la parte più intima di me, diciamo pure la mia storia privata, con la storia collettiva, con le emozioni che hanno segnato un certo periodo della nostra storia. E per tentare di farlo c' era solo la forma del romanzo».
"Ragazzo italiano" racconta la storia di un bambino che da un piccolo e provincialissimo paese si trasferirà con tutta la famiglia a Milano. Una vicenda apparentemente di emigrazione, ma in realtà è come se tu descrivessi il passaggio da un mondo a un altro. Il protagonista è il piccolo Ninni, quanto in lui c' è di te?
«Abbastanza. Tutta la storia che narro ha elementi di verità personale. Ma se fosse solo questo non interesserebbe a nessuno».
Però ti sei spinto molto avanti nella confessione. Ninni, per esempio, è affetto da balbuzie.
«Anch' io ne ho sofferto e credo in una forma che ha determinato una certa infelicità adolescenziale».
Quando dici infelicità pensi al rapporto con l' ambiente in cui vivevi?
«Alla scuola, agli amici, a mio padre».
Nel romanzo tuo padre non esce benissimo. Lo vivi come una specie di involontario persecutore.
«Non so quanto involontario. Figura complessa.
Frustrata dal fatto di non aver potuto studiare, non per libera scelta ma perché il nonno non glielo consentì».
Perché?
«Se ne fregò dei figli, si disinteressò completamente del loro futuro. Era un personaggio strano, il nonno: socialista, laico, antifascista, minacciato e picchiato dai fascisti, non ricco ma dotato di piccole capacità imprenditoriali, lasciò inselvatichire il campo della figliolanza. Mio padre non glielo perdonò, attribuendo al comportamento astratto la causa delle sue frustrazioni. E tuttavia dei cinque fratelli fu il solo a seguire il credo socialista del padre».
Quando dici frustrazioni a cosa pensi?
«Al senso di impotenza velato da vaghe ambizioni.
Segnato da una malattia avuta da giovane che il babbo ogni tanto raccontava. La malattia, almeno negli anni Quaranta, era vissuta come una sorta di sospensione del tempo biologico e sociale. Ogni famiglia o quasi aveva un proprio malato - un nonno, uno zio, un fratello - che si allettava in autunno e riemergeva faticosamente con la primavera. Animali in letargo che si risvegliavano lentamente e si aggiravano come fantasmi nei mesi successivi. Mio padre non apparteneva a questa categoria di perdenti ma si era creato una specie di fortilizio da cui osservare il mondo e me, me che ai suoi occhi ero la prova dei suoi fallimenti».
Avevi davvero questa certezza?
«Non era mai riuscito ad accettare la mia balbuzie che la nonna e la mamma vedevano invece come un motivo in più per volermi bene. Quando, giovanissimo, rovistando tra i libri che avevano fatto sognare mia madre e aggirandomi nella biblioteca dello zio, scoprii le virtù della lettura, quando gli stessi professori si accorsero di una certa predisposizione letteraria, mio padre restò allibito. Era come se per lui quell' unica predisposizione confermasse la mia inettitudine».
Nel romanzo riporti l' episodio di un meccano che ti viene regalato e che non riesci a rimontare.
«Mai, probabilmente, un dono si trasformò in una così cocente disfatta. Ricordo che un cugino - con problemi di relazione dovuti a una grave sordità - si avvicinò al meccano e in poco tempo montò una magnifica gru. Lessi negli occhi di mio padre l' ammirazione per quel bambino e la delusione nei miei riguardi. Fu in quell' istante che mi sentii un inetto. Un ragazzino privo di attitudini pratiche».
Cominciavi a misurare la distanza da tuo padre.
«Era lui che la misurava da me. Le sue attitudini - cantare, avere una bella calligrafia, dipingere, applicarsi al concreto - non erano le mie. Vivevamo su due pianeti separati».
La Milano nella quale cresci è però una città ricchissima di stimoli.
«A un certo punto la famiglia decollò. Si pagarono i debiti, il lavoro paterno ingranò. Papà acquistò una Millecento e poi un Telefunken di 21 pollici: un televisore rinchiuso in una cassa di mogano, vero e proprio moloch al quale avvicinarsi con curiosità e soggezione. Nelle serate davanti al Musichiere (una trasmissione di grandissimo successo) sembravamo indigeni prostrati davanti a una divinità che ci parlava».
Nella tua formazione c' è il liceo Berchet e la progressiva scoperta della politica. Descrivi la figura di un prete le cui sembianze rinviano a Don Giussani. Che ricordo hai di lui?
«Era avvolto da un carisma che non riuscivo a spiegarmi. Non c' era ancora Comunione e Liberazione ma la Gioventù Studentesca. Che devo dirti? Non mi convinceva l' idea della fusione completa in Gesù Cristo. Sentivo che sotto a questi atteggiamenti c' era un che di artificioso. Don Giussani, che allora non sapeva cosa sarebbe diventato - era solo un prete quarantenne - cercava di trasmettere a noi studenti una fede ardente, assoluta. Non lo faceva appellandosi alla dottrina, ai canoni di una chiesa che sentiva minacciata dalla modernità. Lo faceva interpellando i cuori, coinvolgendo le nostre esistenze».
Per dei quindicenni poteva essere una suggestione fortissima.
«Per molti lo fu, non per me. Il richiamo a una sorta di militanza o di apostolato nascondeva il rischio del fanatismo. Finii il liceo nel 1963 e fu come un cambio di passo. Favorito anche dall' incontro con scrittori e poeti che io e un ristretto gruppo di studenti cercavamo di contattare per il giornale scolastico».
Racconti l' incontro con Eugenio Montale.
«Adoravo le sue poesie. Gli chiedemmo un' intervista.
Accettò. Ci ricevette in un salottino della redazione del Corriere della Sera dove lavorava. Ci venne incontro un uomo grassoccio, avvoltolato in un cappottone peloso. Quell' immagine così prosaica contrastava con la bellezza dei suoi versi. Non volle parlare di poesia. Anzi fu lui a farci domande con la curiosità di un entomologo davanti a degli insetti. Mi sentii a disagio.
Gli chiesi perché un poeta con il suo prestigio sentisse il bisogno di lavorare per un giornale. Volevo provocarlo. Ci guardò con durezza. Vedrete, disse ironico, che ne riparleremo tra qualche anno quando magari, dopo esservi laureati in lettere, verrete a cercare proprio qui un lavoro. Non aveva nessuna fiducia nelle capacità di un poeta di potersi mantenere con i propri versi».
Fu una lezione di concretezza.
«Tenuta da un poeta era un po' strano. Ma servì per crescere. Stavo uscendo dalla lunga adolescenza: l' università, l' attenzione alla politica, gli amori, la guarigione».
Ti riferisci alla balbuzie?
«Sì, accadde nel corso di un' assemblea studentesca. Presi la parola. Nessuno si aspettava, a causa del mio difetto, che avrei potuto farlo. Invece parlai in modo argomentato e fluente. Fu come se in quel momento fosse finita la lunga adolescenza di un ragazzo».
Diventasti improvvisamente grande. Ma che cosa ha significato quel passaggio?
«Forse prendere coscienza di una certa normalità. Il mio lavoro nell' editoria - alla Boringhieri, in Rizzoli, in Mondadori - ha significato uscire dalle illusioni. Ricordo che quando vidi il film Il gigante mi innamorai perdutamente di Elizabeth Taylor. Quell' illusione fece sbiadire il ricordo della fine di un amore vero. Per poi lasciar spazio a un nuovo legame. Quell' impercettibile atmosfera di sogno ha accompagnato la mia infanzia, è stata il solo antidoto all' infelicità. Ma non puoi vivere nutrendoti soltanto di questo».
Hai avuto bisogno di un romanzo per rimettere insieme i due mondi: quello dell' intimità e della confessione e l' altro fatto di impegni, di scadenze, di strategie e logiche stringenti?
«Forse sì, anzi sicuramente è stata la molla. Ma è pur vero che non ho un animo da specialista e ho voluto raccontare tutto quello che ho vissuto negli anni della formazione. È stato come cancellare la linea d' ombra che per tanto tempo mi ha accompagnato. La mia prima moglie diceva che la mia vita era composta di tanti cassettini e che non permettevo che venissero confusi o mescolati. Ecco, per la prima volta li ho aperti tutti o quasi, come fossero un solo grande baule.
Ho accostato cose e sensazioni senza però confonderle. In un certo senso per molto tempo ho vissuto come una persona squartata, divisa. E poi ho voluto vedere come funzionava una storia tradotta in scrittura. Il romanzo ha rimesso a posto molte cose».
Il finale - un giovanile viaggio in Grecia con una ragazza che non rivedrai mai più - sembra concedere qualcosa alla nostalgia.
«No, ti sbagli. Ho evitato certi facili sentimentalismi. Quello che ho vissuto si è limpidamente depositato nella mia memoria. Da qui ho attinto a volte con angoscia, altre più serenamente. Sono stato anche quella roba lì, certo. Ma non volevo ridurmi all' autoritratto più o meno indulgente. C' erano conti in sospeso e ferite ancora aperte. La scrittura ha funzionato come farmaco, spero».