Gianmaria Tammaro per “la Stampa”
La Hollywood di Ryan Murphy e di Ian Brennan, in streaming su Netflix, è un affresco mozzafiato pieno di colori, di attori e di musica. È una celebrazione dello star system e contemporaneamente una critica ferocissima a chi a lungo ha voltato la testa dall' altra parte, e ha fatto finta di niente. Dice Murphy che questa era un' idea che aveva da molto tempo: voleva raccontare una storia ambientata negli anni Quaranta, che fosse piena di speranza e di ottimismo.
«Ricordo che dopo The Assassination of Gianni Versace andai a cena con Darren Criss e cominciammo a parlare di una stazione di benzina dove i dipendenti andavano a letto con alcuni personaggi dello spettacolo. Ho provato a immaginare cosa sarebbe successo se Hollywood, a quei tempi, avesse davvero fatto tutto il possibile per mostrare il mondo per quello che era». E cioè un mondo complesso, ricco di diversità, di differenze, di passione, ma non per questo condannabile o criticabile.
In Hollywood c' è la finzione del racconto - una troupe e uno studio guidato da una donna che provano a mettere insieme un film scritto da un afroamericano omosessuale e con una protagonista di colore - e c' è anche, però, la verità della storia. «Ero interessato alle vite di attori come Anna May Wong, Hattie McDaniel e di Rock Hudson - spiega Murphy - perché non hanno mai avuto la possibilità di essere liberi e di essere celebrati per quello che erano. Furono vittime del sistema». Costretti a nascondersi, a mentire, relegati a ruoli banali, che li mortificavano come persone e come artisti. Una donna di colore poteva interpretare solo la serva. Una donna di origini asiatiche non poteva essere protagonista. E un uomo doveva essere un macho, un sex symbol, un divo.
Lente d' ingrandimento
Hollywood è sempre stata una lente di ingrandimento sulla nostra società e su quello che siamo; è sempre stata un' esagerazione dei nostri desideri e, allo stesso tempo, delle nostre paure. «Ho un legame particolare con quel periodo storico - continua Murphy -. Mia nonna mi raccontava storie di quegli anni, e in particolare mi raccontava di Rock Hudson.
Mi diceva che Hudson era gay, e ricordo di aver pensato: quindi c' è qualcun altro come me.Sono cresciuto in Indiana e non ho mai avuto nessun esempio da seguire, nessun modello da cui lasciarmi ispirare; mi sentivo solo».
Hollywood vuole rivolgersi a chiunque, parla allo spettatore, usa la potenza dell' immaginazione per dire qualcosa e proprio nel finale regala dei momenti straordinari ai suoi protagonisti, come Jim Parsons, che interpreta il terribile Henry Wilson, un agente di attori. «All' inizio - dice Murphy - non ha accettato. Ma quando l' ha fatto, si è impegnato fino in fondo. Ha indossato le lenti a contatto e la parrucca ogni giorno, ha messo i denti finti, e ha cambiato il suo modo di camminare. Ha lavorato duramente alla scena in cui balla, e quando l' ha finita è stato applaudito da tutta la troupe. Ho fatto vedere il girato a Meryl Streep, mentre stavamo lavorando a The Prom, e lei ha detto: è straordinario. E se lo dice lei, è sicuramente così».
Il senso di questa serie, la sua appassionata visione di quello che non solo potremmo essere, ma pure di quello che dovremmo provare a diventare, si riassumono nel potere che hanno le storie e chi le racconta. «I film che vediamo al cinema - conclude Murphy - possono insegnarci lezioni molto importanti. Ci mostrano come amare, come stringere amicizie e farsi nemici; entrano dentro di noi, sotto la nostra pelle. Hollywood, per me, è sempre stata un' insegnante. E credo che questa serie provi a ricordarcelo». E almeno qui c' è un lieto fine.
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