“I CANTANTI VENTENNI MI DANNO SPERANZA ANCHE PERCHÉ TUTTO CIÒ CHE OGGI LI CIRCONDA FA LORO SCHIFO. O, PEGGIO, LI FA STARE MALE: DESIDERANO SENTIRSI BENE, PIÙ CHE SENTIRSI FIGHI!” – MANUEL AGNELLI, GIUDICE DI "X FACTOR" RACCONTA GLI INCONTRI CHE LO HANNO SEGNATO, DAI PUNK FIGLI DEL PROLETARIATO AL GRANDE AMORE, LA FIGLIA EMMA: "MA HO CANTATO CON LEI SOLO PERCHÉ È BRAVA DAVVERO" – VIDEO
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Testo di Manuel Agnelli – Prefazione a Nice to rock you di Ezio Guaitamacchi, Leonardo Follieri e Jessica Testa
Era l'autunno del 1980, avevo 14 anni e mi ero iscritto all'Istituto Tecnico Agrario «Bonfantini» di Novara.
Strana scelta per un ragazzino milanese che aveva studiato musica classica, suonava il pianoforte e che, mai e poi mai, avrebbe pensato di intraprendere quel percorso didattico.
Strana, però, sino a un certo punto... avevo infatti preso quella decisione perché mi ero innamorato di una tipetta che mi piaceva un sacco e aveva deciso di fare agraria. Fu così che mi ritrovai catapultato in quella realtà diversa. Con la tipetta non conclusi nulla, ma proprio al Bonfantini avrei fatto i miei primi incontri importanti conoscendo e diventando amico di due o tre compagni di classe con estrazione sociale, interessi artistici e gusti musicali differenti dai miei.
Erano per lo più figli del proletariato appassionati di punk e post punk che io, in quei giorni, non sapevo manco cosa fossero. All'inizio, venivo preso in giro per il mio atteggiamento un po' snob anche perché, oltre alla classica, a me piaceva il progressive rock e davo scarso valore alla sincerità espressiva. Furono i ragazzi del Bonfantini a farmi capire che, più che la tecnica e l'estetica, era indispensabile raccontare con melodie e ritmi il proprio stato interiore. Da allora, è iniziata una nuova avventura.
Ho cominciato a staccarmi dal prog, a considerarlo per certi versi artefatto. Al contrario, il punk dava moltissima libertà di espressione a chi, pur suonando male il proprio strumento, aveva però le idee chiare su cosa dire e perché. Ed era proprio su questa comunanza di ideali che si formavano le band. Quella piccola, grande rivoluzione socio-culturale ha rappresentato per me un sollievo, facendomi scoprire che dietro a questa apparente approssimazione tecnica c'erano «verità» e ricerca autentica della natura umana. Insomma, l'incontro con quei compagni di classe mi ha cambiato la vita perché non ha inciso soltanto sulle mie tendenze artistiche e musicali, ma anche sul mio modo di essere e di pensare.
Con gli amici dell'Istituto Tecnico Agrario di Novara ho suonato molto, ho formato diverse band e ne ho sciolte altrettante, ho fatto i primi esperimenti noise. Con due di loro (Stefano Malazzi e Stefano Parini) ho sviluppato una liaison artistica particolare, mentre con un amico di un altro istituto – ma della nostra stessa età (Lorenzo Olgiati) – ho dato vita a quelli che sarebbero stati gli Afterhours e che, inizialmente, avevamo chiamato Ex Parapsychology. Eravamo fan dei Velvet Underground, il gruppo che con coraggio, efficacia e un enorme senso di libertà artistica aveva trovato un equilibrio mirabile tra melodia e rumore. Tra poesia e rumore. La nostra sintonia di vedute è proseguita nel tempo e, infatti, con entrambi gli «Stefani» sono ancora in contatto e quando si parla di musica siamo quasi sempre d'accordo (...).
Sul fronte professionale, invece, il primo incontro che mi ha cambiato la vita è stato quello con Paolo Mauri. Da metà anni Ottanta, Paolo è stato uno dei produttori più rilevanti della scena underground in Italia. Me l'aveva presentato, una sera al Bloom di Mezzago, Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus dicendomi: «Lui è l'unico che vi può far suonare live in studio». Era proprio quello che stavamo cercando, per catturare anche in fase di registrazione colori e calori di un'esibizione sul palco.
E così All The Good Children Go To Hell (il primo miniLP degli Afterhours) è stato inciso, voci a parte, in questo modo.
A distanza di anni, Mauri è uno a cui faccio ascoltare il materiale prima della produzione e con cui discuto spesso di nuove realtà musicali. Altri due incontri professionali altrettanto significativi di quel periodo sono stati Carlo Albertoli e Giacomo Spazio, due agitatori culturali con cui abbiamo fondato l'etichetta discografica indipendente Vox Pop, proprio insieme a Mauri e Giovanardi.
Entrambi più grandi di noi, erano dotati di una notevole esperienza e di una dote che a me piaceva definire «cinismo romantico», anche se potrebbe suonare come una contraddizione in termini. Di fatto, erano due bastian contrari che evitavano i luoghi comuni, le frasi fatte e la retorica politica che in quel momento imperversava. Carlo Arbertoli e Giacomo Spazio mi hanno trasmesso il concetto di libertà intellettuale.
Con loro ho imparato a non cercare necessariamente il consenso e ad avere un ruolo provocando il pensiero libero. È stato Giacomo Spazio a farmi uno dei regali più belli e rilevanti di quegli anni: un libro-intervista a William Burroughs e Brion Gysin sul cut-up che mi ha affascinato e aiutato nella transizione dei testi delle mie canzoni dall'inglese all'italiano.
Un altro incontro importante, anche se non finito benissimo, è stato quello con Valerio Soave della Mescal. Con lui ci sono state diverse spaccature, ma gli riconoscerò sempre di avermi permesso di essere me stesso in un mercato discografico che in quel momento era assai complicato. Valerio ci ha aiutati a trovare il coraggio di «sporcarci le mani», accettando il confronto con le radio commerciali o con Mtv, cercando di farci uscire dalla nostra nicchia. La Mescal di Valerio Soave è stata il nostro megafono, permettendo il passaggio dall'underground al mainstream senza doverci per forza snaturare. In questo libro si parla in modo interessante anche di incontri e duetti tra coppie artistiche.
Pure a me è capitato di farlo, con il grande amore della mia vita. E cioè con...
mia figlia Emma. Con lei ho duettato nel brano e nel video Lo sposo sulla torta, tratto dal mio album solista Ama il prossimo tuo come te stesso. Ironia della sorte, quella è stata la mia canzone più trasmessa dalle radio, salita addirittura al terzo posto nella classifica di Radio DeeJay. Questo a conferma che non si era trattato solo di uno scontato atto d'amore paterno. Emma canta molto bene, ha la sua band e, giustamente, cerca un suo posto a prescindere da me. Per me la musica è una cosa seria, quindi ho sempre cercato collaborazioni che avessero una finalità puramente artistica.
Proprio grazie a Emma ho potuto assistere a varie rassegne di band formate da ragazzi dai 16 ai 20 anni che hanno le idee chiare, che sanno esprimersi e che propongono qualcosa di nuovo.
Suonano degnamente, per l'età che hanno, e dimostrano di avere un approccio libero alla musica. Trovo che la loro sia una generazione promettente che cerca dei riferimenti senza esserne ossessionata. Mi danno speranza perché li trovo curiosi, interessati ad ascoltare musica che dia loro spunti e ispirazioni senza la presunzione di rifiutare quello che è successo prima di loro. Anche perché tutto ciò che oggi li circonda fa loro schifo.
O, peggio, li fa stare male: desiderano sentirsi bene, più che sentirsi fighi! Ecco perché un libro come questo, ben documentato, pieno di storie importanti, ma anche interessanti e curiose, può rivolgersi non solo agli appassionati nostalgici, ma pure alle nuove generazioni.
E, così come coloro che hanno preceduto me e i miei coetanei hanno saputo raccontare e trasmettere valori e idee artistiche, spero che i teenager di oggi sappiano ascoltare, leggere e fare propri quegli stessi valori. In tal senso ritengo questo libro fondamentale per interessare, stimolare, dare opzioni diverse e far scoprire un'altra dimensione per vivere la musica al di là di quello che viene proposto dai media di oggi. Al di là dei numeri e del successo a tutti i costi. Non la musica che ti sistema la vita.
La musica che ti salva la vita.
Una dimensione 100 volte più potente e più poetica.