“DIPENDEVO DA SESSO E ALCOL. ORA SO CHE SI E' PIU' UBRIACHI DA SOBRI” – LA NUOVA VITA DEL RAPPER JUNIOR CALLY (INVISO A SALVINI) DOPO IL REHAB – “DA QUASI 45 GIORNI NON TOCCO UN GOCCIO, MA NON È FACILE. A 14 ANNI I MEDICI HANNO SCAMBIATO UNA MALATTIA AUTOIMMUNE PER UNA LEUCEMIA. MI E’ RIMASTA LA PAURA DI MORIRE. BEVO PER ANESTETIZZARMI" - "LA RACCOLTA DI FIRME PER ESCLUDERMI DA SANREMO? MAI FATTO MALE A UNA DONNA, HO CANTATO COSE CHE ESISTONO, MA CHE NON HO FATTO" - VIDEO

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Candida Morvillo per corriere.it

 

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Il 15 luglio, con un post su Facebook, il rapper Junior Cally annunciava di essere in rehab per curare le dipendenze da alcol e sesso compulsivo e il Doc, il disturbo ossessivo compulsivo. Ora, è appena uscito dalla clinica toscana, un brufolo post detox gli è spuntato sulla fronte proprio stamane e lo fa sembrare molto più ragazzino dei suoi quasi 30 anni, forse, un Antonio Signore rinato nuovo.

 

Così si chiamava a Focene, provincia di Roma su un mare senza un orizzonte, di giorno a spaccarsi la schiena facendo le pulizie e, la notte, a sognare, rappando per fare della sua rabbia la sua speranza. Lo guardi, sbarbato, i capelli corti. Cerchi il rapper «brutto sporco e cattivo» che esordì con una maschera a gas, cantando la trilogia delle carceri, Alcatraz, Guantánamo, Arkham, e che a Sanremo 2020 fu massacrato per una vecchia canzone ritenuta sessista e per quella nuova, No grazie , invisa a Salvini.

 

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Ma chi sa dove vanno a finire le persone che siamo state quando eravamo arrabbiati, avvelenati. Lui spiega: «Ho chiesto io di essere ricoverato. Volevo smettere di bere, staccare ogni contatto. Ma ogni giorno scoprivo che non ero pronto affatto. Da quasi 45 giorni non tocco un goccio, ma non è facile».

 

 

Come è stato il mese in rehab?

«Di psicanalisi, meditazione, yoga e mi sono reso conto di cosa perdevo quando già prima di pranzo iniziavo col vino e, la sera, dopo altre tre bottiglie di rosso, passavo a grappa, amari, fino a svenire. In rehab , ho scoperto il sapore del caffè la mattina senza postumi della sbornia.

 

Poi, ovvio, ho avuto momenti bui. Ancora ci sono. Quelli in cui mi dico: voglio bere. E quelli in cui mi vengono in mente cose di quand’ero piccolo, del perché sto così. Credo che bevo per anestetizzarmi, per insicurezza. L’alcol mi fa sentire forte, mi fa evadere dal Doc di cui soffro da quando ho 18 anni».

 

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Che era successo a 18 anni?

«Mi hanno detto che non sarei morto. A 14, giocavo a calcio. Faccio i provini per il Perugia, il Verona, vanno alla grande, ma mi respingono: avevo le piastrine troppo basse. Cominciano le visite, mi dicono che è leucemia. Quattro anni per ospedali e mille divieti: non posso giocare a pallone, tatuarmi, andare in motorino... A 15 anni, dico a mamma: se devo morire, me lo devi dire.

 

A 18, i medici capiscono che era invece una malattia autoimmune. Mi è rimasta la paura di morire, il Doc è nato così: ho iniziato a pensare che, se accendevo e spegnevo la luce quattro volte o giravo la maglietta due o evitavo i numeri dispari, non sarei morto. Bere aiutava: se sei ubriaco, non riesci neanche ad aprire la porta, figuriamoci a contare le volte che spegni la luce».

 

Come è arrivato alla decisione di ricoverarsi?

«La situazione è peggiorata col lockdown. Ho sempre bevuto, ma lì ho aumentato. La mattina, non mi ricordavo che avevo fatto il giorno prima, tremavo, il Doc era amplificato, le insicurezze prendevano il sopravvento. Dopo, con le riaperture, stavo sempre in giro per discoteche, conoscevo una ragazza, ci andavo a letto, e il giorno dopo mi sentivo sporco, sbagliato».

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Siamo arrivati al sesso compulsivo?

«C’entrava l’alcol: la sera, vai a letto con una; il giorno dopo, conosci un’altra a pranzo e pure ci vai a letto... Sono andato avanti così per quasi un anno. A primavera, con lo psicologo, mi sono detto: perché devo cercare conferme col sesso? Non mi serve questo scudo da rockstar».

 

Nel nuovo singolo, «Come Monet», va a letto con tre donne e poi con le mogli di politici e calciatori, felice di sentirsi dire che è meglio di loro. Quanta verità c’è?

«Era così. Rappresenta i tre mesi più sessualmente densi, peggiori. Mi dicevo: devo essere il primo, è sposata, ma vuole me. Di spiegazioni ce ne sono tante. A Focene, ero sempre il diverso, lo sfigato che voleva fare rap e nessuno ci credeva. Ma rischiavo la morte per tutto e rappare era il mio sfogo. Sentivo di avere talento, facevo le pulizie, il cameriere e mi pagavo la musica. Lì, ho messo la maschera».

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Cally, all’inizio, non mostrava il viso.

«Perché, tanto, al Paese, qualunque cosa avessi fatto, non mi avrebbero considerato. Dovevo diventare un altro per essere un idolo. Poi, da famoso, ho scoperto che Internet è peggio del paese. Quindi, è arrivato Sanremo e il noto casino».

 

Centomila firme per escluderla.

«Io non ho mai fatto male a una donna, ho cantato cose che esistono, ma che non ho fatto. Tante cose brutte di questi due anni sono figlie di quel Sanremo. Mi hanno demonizzato. Ora, non vedo l’ora di iniziare il tour, il 15 gennaio al Largo Venue di Roma e il 29 all’Alcatraz di Milano».

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Il 10 settembre esce il terzo album: «Un passo prima». Un passo prima di che?

«Prima che sia troppo tardi. Ci sono questa sofferenza e brani più luminosi, spero simili al mio futuro».

 

Cosa è più bello dopo il rehab?

«Vedo e sento più cose. Mi accorgo dell’insetto sul fiore. Prima, ero a letto con una, ma non la vedevo. Ora, so che si è più ubriachi da sobri».

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JUNIOR CALLY CON AMADEUS
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