“ALLE ELEMENTARI HO VISTO LA PERFIDIA NELL’USO DEL TERMINE “MAROCCHINO”. SI METTEVANO NOTE IN CLASSE PER QUESTO...” – MALIKA AYANE, NATA A MILANO DA PADRE MAROCCHINO, RACCONTA LA SUA VITA ALLA PERIFERIA DI UNA GRANDE CITTA' - "LI’ CHI VIENE DA FUORI PUÒ SEMBRARE MINACCIOSO” - “ORA LA TRAP, PRIMA I TALENT. ANCHE NELL’INDUSTRIA MUSICALE C’È UNO SFRUTTAMENTO COMMERCIALE CHE TENDE A SPOLPARE RAPIDAMENTE. FORSE SERVIREBBE UN PO’ PIÙ DI...”
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Gianni Santucci per corriere.it
Guardate quella ragazza, sì quella seduta a metà del tram, con i suoi bagagli ingombranti. La custodia del violoncello, lo zaino con i libri del liceo, la borsa sportiva, perché oggi ha avuto anche educazione fisica. Seguitela, o meglio, state con lei: sul tram linea 27, partito da piazza Fontana, che ha già oltrepassato piazza Cinque Giornate, e ora continua ad avanzare nel traffico diretto a Est, verso la periferia; passa sotto al ponte della ferrovia e qui, a osservarla dai finestrini,
Milano è già un’altra città, mentre il tram imbocca via Mecenate, «uno stradone che non finisce mai, ed era buio e c’era quel freddo d’autunno inoltrato, la nebbia densa, i semafori interminabili; mi rivedo su quel tram che viaggia verso la fine della città, dopo non c’è più niente, nessun palazzo, solo la tangenziale, e spazi vuoti abbandonati, un panorama di tristezza immensa: però quel viaggio ipnotico mi faceva pensare: “Adesso dove mi porta? Può arrivare ovunque”. Invece, proprio là in fondo, il tram gira un angolo ed è finita, ti ritrovi sul marciapiede, al capolinea».
Ora, serve solo un piccolo transfer temporale: ambientate questa scena alla fine degli Anni 90. E sarete accanto a quella ragazza, che si tira dietro il violoncello e tutto il resto: Malika adolescente. Malika prima di Malika Ayane, dei cinque Sanremo, i due premi della critica, i dischi di platino, l’inno di Mameli cantato alle Olimpiadi di Pechino, un curriculum artistico sterminato. «Tutte le scelte più importanti della mia vita le ho fatte riflettendo durante quei viaggi in tram. Ogni mattina. Ogni sera. Il primo aereo che ho preso era un low cost, pubblicizzato sul manifesto a una fermata. Il centro di gravità della memoria mi riporta lì. Quel tram per me è Milano. Il mio ricordo più denso».
Malika Ayane e la sua città. Milano mondo. Primo concerto?
«I Bluvertigo, al Rolling Stone di corso XXII Marzo».
Posto mitico. In trent’anni ci è passata la storia del rock.
«Io invece ci passavo davanti ogni giorno, sempre sul “mio” tram. E sognavo di fare lì il mio primo concerto».
Ci è riuscita?
«L’ho sfiorato. Ho suonato la prima volta al Rolling Stone per la festa dei licei milanesi. Poi un’apparizione da supporter, ma non avevo ancora fatto il primo disco. La terza volta era quella vera. Aprivo per Duffy. Ero pronta».
E che è successo?
«Poco prima hanno venduto il palazzo. Fine del Rolling Stone. Club demolito. E ciao».
Però nel 1997 aveva cantato alla Scala, scelta da Riccardo Muti.
«Ho studiato al Conservatorio. Era la scuola di più alto livello, ma anche la più democratica. Pagavo 150 mila lire l’anno. Avevamo il noleggio degli strumenti a lungo termine. Era accessibile a tutti. Una scuola pubblica nel senso più alto del termine. Anche questo è Milano. Opportunità».
Ragazza di periferia. Madre italiana e padre marocchino. Ha mai sentito il pregiudizio.
«Non al Conservatorio, anche se lì ero palesemente un pesce fuor d’acqua. Era stato peggio prima».
Alle elementari?
«Lì ho visto la perfidia nell’uso del termine marocchino. Si mettevano note in classe per questo. Come al solito, paradossalmente, in una realtà più ristretta e periferica chi viene da fuori può sembrare minaccioso».
In che Milano è cresciuta?
«Una città in cui convivono tante realtà parallele e intrecciate».
Quali ha attraversato?
«Il mio quartiere di periferia. Il Conservatorio in centro. La prima casa da sola in piazza Abbiategrasso, dove c’era il Sert per i tossicodipendenti e un enorme scavo che poi sarebbe diventato il metrò. La stanza in una casa condivisa con due ragazzi venezuelani che cercavano la loro avventura, un parrucchiere, un culturista. Gli amici jazzisti che iniziavo a frequentare. Poi la Milano notturna, come barista a Le Trottoir. Diversi mondi, uno dopo l’altro, uno insieme all’altro».
Ha mai pensato di andarsene?
«Non è cambiare paesaggio che fa cambiare le cose».
Le piace ancora la sua città?
«Mi dà fastidio tante volte. Vero che a Milano te la cavi sempre, un modo lo trovi. A volte però mi sembra che deleghi troppo, lasci troppi spazi di solitudine, sia un po’ slegata».
Slegata in che senso?
«Quando tornavo a casa la sera, dopo il mio giretto col cane in largo Tel Aviv, e chiudevo la porta di casa, mi interrogavo sempre: cosa succede agli altri? Cosa succede a una ragazza come sono ed ero io, ma con meno struttura, con meno fantasia, che poi sono le cose che ti salvano sempre? Chi se ne prende cura?».
Sua figlia ha 17 anni. Che Milano è la sua?
«Totale assenza di pregiudizi. Molto trasversale. Anche “delocalizzata”. Quando ero una ragazzina, si andava tutti al cinema e far le vasche in centro».
Oggi invece?
«Vivono e passano tra quartieri diversi, più indipendenti dal centro, interessanti. I ragazzini maneggiano la città, se ne sentono parte, la vivono come fosse loro, la scoprono».
Da madre, cosa le fa paura?
«La vacuità. Vedo i butta-dentro dei locali, i ragazzini di 15 anni rovinati di alcol. Mi dispiace».
Avrebbe detto lo stesso quando l’adolescente era lei?
«Una “ciocca” brutta se la sono presa tutti. Non sto facendo la morale».
Qual è il punto?
«Che il chupito a 2 euro non può essere l’unico focus, come se fosse scontato che le serate a quell’età debbano andare così. Mi piacerebbe che ci fosse altro intorno».
Cosa invece le dà fiducia?
«Che se hanno uno stimolo, i ragazzi smentiscono tutto quanto abbiamo appena detto. Se diamo un segnale alla loro esistenza, l’ultima cosa che vogliono fare è stordirsi».
Si riesce a dare stimoli?
«Mia madre lavorava tantissimo. Io potevo essere una disgraziata. Di certo ho molto più tempo per dare continui input a mia figlia. E poi io ho conosciuto Internet degli albori. Ora con lei ci scambiamo i podcast. È proprio un altro mondo».
Milano è anche un po’ capitale della musica trap. E delle recenti derive criminali di molti artisti ragazzini. Che messaggio mandano ai loro coetanei?
«Guardiamo più indietro. Per origine, quel genere nasce come manifestazione di un disagio».
Non solo milanese.
«Certo. Per ogni metropoli ci sono un sacco di periferie. Pensiamo a Living for the city di Stevie Wonder, anno 1973. Il disagio delle periferie è già scritto tutto lì, in quella canzone».
Qual è la radice?
«Una città dovrebbe offrire opportunità, ma poi tanti si trovano a nascere e morire senza avere davvero a portata di mano nessuna delle prospettive che si intravedono».
Parti di Milano, e di ogni altra metropoli, che restano tagliate fuori.
«Le persone vengono messe di continuo nelle condizioni di desiderare ciò che non potranno mai avere, a meno che non abbiano un concreto accompagnamento. Se questo non c’è, rimane solo il disagio».
L’industria musicale lo sta alimentando?
«Ora la trap, prima i talent. Anche nell’industria musicale c’è uno sfruttamento commerciale che tende a spolpare rapidamente. Forse servirebbe un po’ più di educazione all’ascolto».
Alcuni nuovi trapper sembrano più personaggi crime che musicisti.
«È abbastanza scontato, per ogni artista che emerge, ce ne sono tanti altri che provano a sfruttare la moda del momento».
Il 7 dicembre è la più «milanese» delle date. Sant’Ambrogio, Prima della Scala. Lei invece, milanese, quella giornata l’ha passata Roma, per la prima di Cats (da protagonista).
«Singolare coincidenza».
Che però racconta simbolicamente un filo della sua carriera. Cantautrice, violoncellista, il jazz, i musical. Come si muove tra questi mondi?
«Ho iniziato con una formazione classica, ma ero anche un’adolescente con gusti contemporanei. La voglia di guardarmi sempre intorno mi è rimasta da lì».
Quanto conta il coraggio di cambiare?
«Ogni esperienza, per definizione, è transitoria. La affronto con il massimo impegno e la massima intensità, ma senza solennità, senza pensare che il mondo giri intorno a quel che sto facendo in quel momento. Anzi, penso a cosa farò dopo».
In che ambito si vede di più?
«Nell’evadere dall’abitudine costante, e molto italiana, di incasellare sempre tutto, a volte in modo forzato».
Poco prima che la conversazione si concluda, Malika Ayane si ravvia le lunghe treccioline di capelli biondi. Si trova a Roma. Dice: «Andrò un po’ a esplorare la città». Battuta: non sarà così comodo farlo con i mezzi pubblici. La risposta la riporta col pensiero a Milano, al «suo» tram, al valore sociale di un buon trasporto pubblico per i ragazzini di ogni periferia del mondo.
«In effetti a Milano potevo e posso spostarmi in mezz’ora dall’estrema periferia al pieno centro. Questa non è solo una comodità. È un’opportunità: di vivere davvero la città e le occasioni che ti offre».