“ENNIO MORRICONE TI FA VENIRE VOGLIA DI FARE COSE MERAVIGLIOSE CON LA TUA VITA, DI FARNE UN CAPOLAVORO" – GIUSEPPE TORNATORE PARLA DEL DOC SUL GRANDE COMPOSITORE (“MODELLO DI ITALIANO RARO”) E DI “NUOVO CINEMA PARADISO”: ALL'INIZIO NON LO ANDÒ A VEDERE NESSUNO. NEI TAMBURINI DI REPUBBLICA DUE FILM ERANO "EVITABILI": IL MIO E UN PORNO DI MOANA POZZI" - IL "NO" PER IL FILM SULL'ASSEDIO NAZISTA DI LENINGRADO: “È UNA MALEDIZIONE. OGGI SAREBBE DI UN'ATTUALITÀ BRUCIANTE. E PENSARE CHE UN FRATELLO DI PUTIN MORÌ DI FAME IN QUELL'ASSEDIO” – IL CONSIGLIO DI SCIASCIA - VIDEO
-Concetto Vecchio per “il Venerdì di Repubblica”
Nelle sale gli spettatori alla fine applaudono Ennio, il documentario di Giuseppe Tornatore sul compositore Morricone. Una meraviglia italiana che finora ha incassato oltre due milioni e trecentomila euro. Il regista intriso di sicilitudine ci riceve nel suo studio ai Parioli.
Cosa applaudono esattamente?
«Lui, Ennio. Il suo esempio di uomo semplice e allo stesso tempo geniale».
E perché?
«È un moto d'insofferenza verso noi stessi. È come se la gente dicesse: "È così che ci dobbiamo comportare, così dobbiamo essere, e invece stiamo andando da un'altra parte"».
Ammirano l'esempio?
«Morricone è un modello di italiano raro. Un ragazzo di umili origini che raggiunge il successo mondiale senza scorciatoie, né compromessi. Uno che coltiva il suo enorme talento con dedizione assoluta».
È anche un inno alla vocazione?
«Le leggo un sms della nipote di una mia amica: "Ennio ti fa venire voglia di fare cose meravigliose con la tua vita, di farne un capolavoro"».
Quindi è come se alla fine esplodesse un senso di colpa collettivo?
«Sì, una forma di autocritica. Morricone era un genio e non ne aveva alcuna consapevolezza. Anche questo piace. Ed è rimasto sempre umilissimo, pieno di dubbi».
Cosa ci insegna?
«Che bisogna dare il massimo in ogni campo. Perché tutti noi, da qualche parte, abbiamo una dote inespressa che merita di essere dispiegata».
Basta per spiegare l'emozione che suscita?
«C'entra anche il momento di profonda angoscia che stiamo vivendo. Le sue musiche sono state la colonna sonora per generazioni. Sono come un balsamo sulle ferite dell'anima».
Morricone voleva fare il medico e suo padre lo costrinse a suonare la tromba.
«E lui ribaltò questa situazione apparentemente sfavorevole studiando composizione e rompendo le convenzioni musicali. "A volte i limiti ti danno un grande senso di libertà", mi rivelò un giorno».
Quanti anni è durata la lavorazione del film?
«Sette anni e mezzo. Più di due solo per il montaggio, ma di mezzo c'è stata la pandemia».
L'intervista con Morricone a quando risale?
«Ci furono undici incontri. Nove durante le feste natalizie del 2015 e due nella primavera successiva, per un totale di 44 ore di registrato».
Quanto c'entra il senso di rivalsa in un artista?
«Tantissimo. In Morricone era rappresentato dal duello continuo con il suo maestro, Goffredo Petrassi, che non aveva mai approvato la sua scelta di comporre musiche per il cinema».
E lei cosa ha capito del talento?
«È un'urgenza. "Il film ti deve uscire dalla pancia", diceva Luchino Visconti».
Come le sembra l'Italia di oggi?
«Ha perduto la capacità di sognare».
In che senso?
«Quando ero ragazzo si pensava che la politica fosse il mezzo per costruire un mondo migliore, questa convinzione mosse ideali e impegni collettivi. Lo slancio si è esaurito».
Lei faceva politica?
«Il consigliere comunale del Pci a Bagheria nel 1979. Ero il più giovane dei sei consiglieri di opposizione, imparai una cosa fondamentale: non bisogna parlare senza conoscere a fondo un argomento».
È rimasto di sinistra?
«Ho sempre votato Pci, Pds, Ds, Pd. Ma ogni volta con minore entusiasmo».
Che cosa consiglierebbe a un giovane?
«Di non guardare in faccia a nessuno. Non bisogna ascoltare quelli che ti dicono "lascia perdere"».
A lei lo dissero?
«Un sacco di volte. Arrivai a Roma a 25 anni dalla Sicilia. Mi dissi subito: "Se ti dicono di no, tu fa' come se ti dicessero sì". Cominciai a chiamare i produttori. Mi sbattevano il telefono in faccia. Mi presentavo lo stesso.
Le segretarie quando mi vedevano mi prendevano per pazzo. Qualche volta riuscivo a intrufolarmi. "Il suo soggetto non è interessante", mi liquidavano in pochi minuti. E io tornavo a casa e preparavo il trattamento come se mi avessero dato l'incarico».
Bisogna essere un po' matti?
«Totalmente. Convinsi Tullio Pironti a darmi i diritti del libro di Joe Marrazzo, Il camorrista, per appena un milione di lire. Cercai Ben Gazzara e gli dissi che la Titanus di Goffredo Lombardo, il produttore di Rocco e i suoi fratelli, aveva accettato la mia proposta di ricavarne un film. Non era vero niente. Lombardo mi aveva detto di no».
Che fece?
«Convocai i giornalisti in una trattoria a Fontanella Borghese gestita da Gigi Proietti, e con Marrazzo e Gazzara annunciammo il progetto. Uscirono molti articoli: "Il camorrista diventa un film". Quando li lesse, Lombardo mi insultò: "Di figli di puttana ne ho conosciuti tanti, ma tu li superi tutti". Alla fine però decise di produrlo».
Quante volte uscì Nuovo Cinema Paradiso prima di diventare un successo mondiale?
«Quattro. All'inizio, nel 1988, non lo andò a vedere nessuno. Solo a Messina andò bene, ma perché l'esercente faceva entrare gli spettatori gratis. Nei tamburini di Repubblica due film erano "evitabili": il mio e un porno di Moana Pozzi. Dopo l'Oscar, nel marzo 1990, scrissero "da non perdere". L'Espresso mi dedicò la copertina: Incompreso».
Cosa la faceva soffrire?
«Certi giudizi negativi, tipo quelli che mi riservò Tullio Kezich: avevo divorato tutti i suoi libri, lo ritenevo un maestro, e adesso mi faceva a pezzi».
Quanto ha incassato Nuovo Cinema Paradiso?
«In Italia dieci miliardi di lire. In America 18 milioni di dollari, ma sottotitolato».
Insomma, lei si è riconosciuto in Morricone perché siete entrambi degli outsider?
«Guardi che io ricevo molti no anche adesso. In qualche modo sono salutari».
Il "no" per il film sull'assedio nazista di Leningrado quanto brucia?
«È una maledizione. L'ho inseguito per anni. Oggi sarebbe invece di un'attualità bruciante. Una grande storia moderna e allegorica su una città circondata dai nemici».
Oggi sono i russi gli invasori.
«E pensare che un fratello di Putin morì di fame in quell'assedio».
Quando decise di fare il regista?
«A sette anni, dopo aver visto il mio primo film, Gli Argonauti».
Che ragazzo era?
«Molto solitario. Facevo il proiezionista, un lavoro di totale solitudine. Mi piaceva moltissimo spiare le reazioni degli spettatori in sala».
Che famiglia era la sua?
«Semplicissima. Papà da ragazzo aveva fatto il pecoraio, poi si occupò sempre di politica, sindacalista nella Cgil. In crisi con il Pci emigrò a Parigi per lavorare come muratore, quindi tornò a Bagheria. Mamma era casalinga.
Non capivano la mia passione per il cinema, ma nemmeno m' impedirono di viverla, né mi chiesero di cercarmi un lavoro vero. Semplicemente mi fecero fare».
Come guarda oggi a quell'atteggiamento?
«Con gratitudine. Non li ho mai sentiti vantarsi dei miei successi». Non si è mai laureato. «Dopo il liceo classico, mi iscrissi a Lettere. Il primo giorno di lezione un professore sessantottino parlò dell'imbuto della riproducibilità in Benjamin.
Nell'aula quattro studenti lo ascoltavano chini sui loro appunti. Entrò un ragazzo e chiese: "Ma questa non è l'assemblea dei precari?" Gli dissero di no. Uscì. Lo seguii. Non ci ho più messo piede».
Torna spesso a Bagheria?
«Vado a trovare mamma, ha novant' anni. Mi racconta delle cose che cucina e del rapporto con le piante nel giardino, il mandorlo, l'ulivo. Questo inverno era contenta perché l'albero ha fatto tanti limoni».
Invecchiando ci si riconcilia con le origini?
«Talvolta mamma mi telefona e mi racconta i suoi sogni. Sogna spesso mio padre. "Stanotte, tuo padre non era allegro", mi dice dopo un incubo. "Stai attento, è un presagio", aggiunge. Sono premonizioni molto siciliane».
Alla fine si torna sempre in Sicilia?
«Quando uscì Nuovo Cinema Paradiso chiamai Leonardo Sciascia. Era a Milano, e stava già molto male. Parlò del film con commozione, disse che aveva rivisto sé stesso ragazzo. "Fai solo film sulla Sicilia", si congedò».
Lei non l'ha ascoltato.
«Non so se ho fatto bene. Ci penso spesso. Ma non trovo la risposta»