“HO SEMPRE RAGIONE PERCHÉ NON SONO MAI IMPARZIALE” –  FRAN LEBOWITZ, LA SCRITTRICE CHE HA DECISO DI NON SCRIVERE PIÙ, PORTA A TEATRO LE SUE CONFERENZE/SPETTACOLO – “IL CAMBIAMENTO CLIMATICO NON MI TERRORIZZA. SONO VECCHIA E NON HO FIGLI. SE FOSSI GIOVANE E MADRE, NON PENSEREI AD ALTRO” – “LA CANCEL CULTURE? PHILIP ROTH OGGI NON POTREBBE PUBBLICARE I SUOI LIBRI. CON LE DONNE È STATO ORRIBILE MA ERA UN OTTIMO SCRITTORE. NON SEI D’ACCORDO CON QUELLO CHE ERA? NON LEGGERLO” – IL RAPPORTO CON LA PREMIO NOBEL TONI MORRIS E QUELLO CON NEW YORK – VIDEO

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Estratto dell'articolo di Cecilia Bressanelli per “La Lettura- Corriere della Sera”

 

fran lebowitz

Una volta la scrittrice premio Nobel Toni Morrison, sua grande amica, le disse: «Mi sembra che tu abbia sempre ragione senza mai essere imparziale». E lei, Fran Lebowitz, le rispose: «È vero. Ho sempre ragione perché non sono mai imparziale». Dell’arte di avere un’opinione su quasi tutto Fran Lebowitz ha fatto una professione. E la professione di public speaker — noi potremmo dire opinionista senza rendere a pieno l’idea — ha fatto di lei un’icona. Cresciuta in una famiglia ebrea a Morristown, nel New Jersey, è arrivata diciannovenne a New York, dove ha fatto ogni tipo di lavoro (addetta alla sicurezza o alle pulizie, tassista...) per non lasciare quella che oggi, a 72 anni, conferma essere la migliore città al mondo: «La sola nella quale potrei vivere».

 

Fran Lebowitz è una scrittrice che non scrive più. La sua carriera è iniziata sulla rivista «Interview» di Andy Warhol. Tra il 1978 e il 1981 ha pubblicato due raccolte di saggi bestseller dal tagliente umorismo: Metropolitan Life e Social Studies (tradotti in italiano solo nel 2021 da Bompiani nel volume La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire). Ma, dopo un blocco dello scrittore che dura ormai da decenni, ha scelto di dedicarsi al «discorso pubblico» per analizzare e criticare, a voce, la società americana tutta e la città di New York in particolare.

 

fran lebowitz al teatro arcimboldi di milano - locandina

Le sue conferenze sono sempre affollatissime e costante è la sua presenza nei più importanti talk show degli Stati Uniti. Nel 2021, in piena seconda ondata della pandemia, ha raggiunto tutto il mondo grazie all’amico Martin Scorsese che (dopo il documentario Hbo del 2010 La parola a Fran Lebowitz) ha realizzato per Netflix la docuserie Fran Lebowitz. Una vita a New York, in cui la segue nelle infinite passeggiate per la città e la ascolta (ridendo a ogni battuta) raccontare della New York degli anni Settanta, della sua passione per il jazz e Duke Ellington, del suo infinito amore per i libri, dell’odioso divieto di fumare nei locali, dell’avversione per i passanti ormai tutti, tranne lei, fissi sui propri telefoni cellulari.

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Fran Lebowitz un cellulare non lo possiede, e non ha nemmeno un computer o una connessione internet. «La Lettura» la raggiunge al telefono fisso del suo appartamento a Chelsea. Il 5 maggio incontrerà per la prima volta il pubblico italiano al Teatro degli Arcimboldi di Milano dove porterà in tour la sua conferenza/spettacolo: Una serata con Fran Lebowitz (produzione Aguilar): «Sono sempre contenta di tornare in Italia». Dall’ultima volta, dice, è passato troppo tempo.

 

La serata teatrale è, in pratica, una conversazione: nella prima parte dialoga con un intervistatore che cambia a ogni tappa (a Milano con la giornalista di moda Grazia D’Annunzio); nella seconda risponde alle domande del pubblico. Una struttura che ama molto?

«Seguo questo formato da quando avevo 31 anni. La ragione principale è che così non sono costretta a scrivere un discorso. Attraverso le domande si può parlare di quello a cui le persone sono veramente interessate. E inoltre è molto divertente».

 

Ultimamente quali sono le domande più frequenti?

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«Dipende molto da ciò che avviene nel mondo. Fino alla serie Netflix mi muovevo tra Stati Uniti e Canada, dopo invece ho raggiunto il Regno Unito, i Paesi scandinavi e ora l’Italia. In luoghi diversi sono diverse anche le domande. Ma ho notato un cambiamento negli anni: solitamente mi venivano fatte molte domande sulla politica solo in periodo di elezioni, invece dal 2016 (l’anno dell’elezione di Donald Trump, ndr), anzi già dal 2015, ovunque mi trovi, le domande sulla politica sono tantissime. Questo perché, almeno nella parte di mondo che conosco, ci sono moltissimi problemi politici».

 

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Il libro di Fran Lebowitz

Molto è accaduto negli ultimi anni. L’allarme per il riscaldamento globale, il Covid, la guerra in Ucraina, il ritorno dei talebani in Afghanistan, le proteste in Iran... Che cosa trova maggiormente destabilizzante oggi?

«Sono consapevole che la questione più importante è il riscaldamento globale. Se il mondo brucia tra le fiamme o viene inondato non può esserci niente di più importante. Ma si tratta di scienza, di cui purtroppo non so quasi niente. In più sono consapevole di non potere fare nulla a proposito.

 

Credo che il pensiero e la reazione rispetto al cambiamento climatico abbiamo molto a che fare con due cose: quanti anni hai e se hai figli. Io sono vecchia e non ho figli: la mia preoccupazione su quello che potrebbe accadere tra trent’anni è astratta. Certo provo una preoccupazione generale, ma non mi trovo in uno stato di terrore. Se fossi giovane o avessi figli non penserei ad altro. Dal mio personale punto di vista la cosa più terrificante al momento è il quasi globale rifiuto della democrazia, il dispiegarsi di forze contro di essa».

 

Vede una speranza nelle nuove generazioni?

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«Credo che la cosa più importante che i ragazzi (usa la parola kids, ndr), intendo i ventenni, possano fare è candidarsi a qualcosa. Mi dicono spesso: non so cosa fare, non so quello che dovrò fare quando sarò grande; rispondo sempre: candidati. Tutte le cariche sono ricoperte da vecchi, perché i giovani non si candidano. Solo se lo faranno si può ottenere un cambiamento».

 

Lei è una scrittrice che non scrive più da anni. I discorsi pubblici le permettono di fare qualcosa che non poteva fare attraverso la scrittura?

«Semplicemente parlare mi permette di non scrivere. Scrivere per me è sempre stato molto difficile. Sono molto pigra. Parlare è più facile, quindi ho scelto la cosa più semplice».

 

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Una grande amicizia l’ha legata a Toni Morrison, autrice di «Amatissima», scomparsa nel 2019. Cosa le manca di più di lei?

«Tutto. Nessuno mi è mai mancato tanto. Ho molti amici che sono morti, lo sono anche i miei genitori e naturalmente mi mancano. Ma il modo in cui mi manca Toni è così estremo... parlavo con lei diverse volte ogni settimana, se eravamo nella stessa città la vedevo spesso. È una delle poche persone di cui ascoltavo veramente ogni parola; ne valeva sempre la pena. Mi manca ogni giorno.

 

Penso continuamente a cosa direbbe di tutto quello che sta accadendo. Quando è comparso il Covid ero sconvolta perché mai avrei creduto che una cosa del genere potesse accadere — forse perché non ho mai letto o guardato opere di fantascienza... a quanto pare gli appassionati avevano visto accadere cose simili parecchie volte. Quando è successo ho subito capito che non sapevo che cosa pensare. Sapevo che cosa provavo e credo che tutti si sentissero allo stesso modo, ma non sapevo che cosa pensare. Invece lei avrebbe saputo che significato dare a quello che stava avvenendo».

 

Cosa avrebbe pensato?

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«Toni era una delle poche persone a conoscere la differenza tra pensiero e sentimento. Le persone dicono continuamente “penso questo, penso quello”, ma stanno semplicemente parlando di come si sentono. I sentimenti sono piuttosto universali, c’è un numero limitato di emozioni nonostante ciascuno creda che le proprie siano uniche. Avere un pensiero è invece cosa da pochi. Toni sarebbe stata davvero di aiuto nel processare quello che stava accadendo».

 

Lei è una lettrice vorace. Nel suo appartamento ha 12 mila libri. C’è un libro che le è particolarmente piaciuto tra quelli che ha letto negli ultimi anni?

«Ho sempre letto molto, ma a causa del Covid le librerie sono state chiuse. Io le frequento ancora, ma naturalmente in quel periodo non lo potevo fare e quindi, sfruttando l’account Amazon di un amico, ho dovuto affidarmi a due metodi che ritengo i peggiori per scegliere un libro: le recensioni e i consigli degli amici.

 

Mi sono ritrovata con un centinaio di libri, non sto esagerando, che non avrei mai comprato se fossi stata in una libreria. Lì apro il libro, leggo il primo paragrafo o la prima pagina, e mi basta quello per capire se un libro può piacermi. Ho qui pile di libri a cui non mi sarei mai avvicinata».

 

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Nella sua libreria c’è invece un libro che non si stanca mai di leggere?

«Rileggo spesso i libri. In alcuni casi perché li ho amati e in quel momento voglio rilassarmi. Mi capita anche di leggere libri che ho letto in passato e non mi sono piaciuti. Mi è successo con Silas Marner di George Eliot, che odiai quando lo lessi a scuola, ma a cui qualche anno fa ho deciso di dare una seconda possibilità. Mi sono portata il libro in aereo, così non avevo alternative, l’ho letto e mi è piaciuto. Ero l’unica persona che lo stava leggendo su quel volo: la sola persona su qualsiasi aereo del mondo, mi ha fatto notare un’amica».

 

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Nei testi di Roald Dahl o Agatha Christie sono stati modificati termini potenzialmente offensivi. Un eccesso di politicamente corretto?

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«Credo sia orribile. Una volta che un autore è morto il suo lavoro non può essere toccato. È oltraggioso. E lo è sempre stato: Scott Fitzgerald è morto senza finire il suo ultimo romanzo ed è stato completato da altri, ma gli altri non sono Scott Fitzgerald. Non ha finito il romanzo? Peccato. Roald Dahl doveva essere di suo una persona offensiva ma togliere parole dai libri è scandaloso.

 

Qui in molte scuole non puoi leggere Mark Twain: trovo assurdo che a causa del linguaggio siano stati banditi i libri di uno tra i più grandi scrittori americani. Ma non si può non considerare il tempo in cui è vissuto. Dovremmo essere in grado di capire cosa era accettabile in epoche diverse. Ma dire che una cosa era accettabile in un’altra epoca — e ai tempi di Twain c’era un livello altissimo di razzismo — certo non significa dire che fosse corretto: sono cose molto diverse. Qualsiasi libro scritto da un autore britannico fino a vent’anni fa poteva avere un qualche contenuto antisemita, persino nei gialli di Agatha Christie. Questo lo rende corretto? Assolutamente no. Ma non bisogna toglierli dalla pubblicazione.

 

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Ogni libro ha il diritto di essere pubblicato, poi si può scegliere di non leggerlo. Oggi ci sono libri che vengono ritirati dal commercio non per il loro contenuto ma a causa di ciò che possono avere fatto in vita autori che magari sono morti. Un paio di anni fa è stata bloccata la pubblicazione della biografia di Philip Roth a causa delle accuse di molestie rivolte al suo biografo (Blake Bailey, ndr): ridicolo. Le accuse erano terribili, almeno una riguardava un crimine (stupro, ndr). Se uno commette un crimine deve essere indagato, ma i libri non c’entrano.

 

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Lo stesso Philip Roth oggi non potrebbe pubblicare i libri che ha scritto. Certo nei confronti delle donne è stato orribile — tutti gli uomini lo erano e lo sarebbero se gli venisse permesso — ma era un ottimo scrittore. Non sei d’accordo con quello che era? Non leggerlo».

 

Questi tempi di «cancel culture» in cui si deve stare attenti a cosa si dice porteranno alla fine dell’umorismo?

«Non credo. Ci sono tanti artisti, comici, musicisti, che magari possono non piacere. Non ascoltateli, non leggeteli. Ma tutti dovrebbero essere liberi di dire quello che vogliono».

 

Veniamo alla sua New York. È tornata ad essere la città che era prima del Covid?

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«Per niente. Lo scorso anno il tour mi ha portato nel Regno Unito e nei Paesi scandinavi: qui le città sono tornate ad essere quello che erano prima della pandemia; le città degli Stati Uniti no. Credo che la ragione sia perché qui è stato chiesto ai dipendenti se volessero tornare in ufficio e la risposta, naturalmente, è stata no. New York è tornata ad essere piena di turisti, ma ci sono città davvero deserte, come San Francisco, dove il centro era abitato da persone ricche che lavoravano nelle aziende tecnologiche».

 

Quindi un po’ il mondo è cambiato?

«Una città come New York in tre anni sarebbe cambiata comunque. New York cambia in tre giorni. Ma non tornerà mai ad essere la città di prima. È una tra le più antiche città americane, ha attraversato tanti avvenimenti e cambiamenti rimanendo sempre New York City. Qualsiasi cosa accada, sopravvivrà».

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