“MA LEI E’ VENUTA A INTERVISTARE ME O L’ALIENAZIONE?” – LA BOMBASTICA INTERVISTA A MONICA VITTI DI ORIANA FALLACI (''EUROPEO'' NEL ’63) – "L’INCOMUNICABILITÀ? L’ALIENAZIONE? MACCHÉ, SE SONO TRISTE È PER LA PRESSIONE BASSA. IO UNA INTELLETTUALE? BOH. DATEMI UNA PARTE CHE FACCIA RIDERE! - L'AMORE PER ANTONIONI: "È STATO COME AMARE TRENTA UOMINI. EPPURE DICONO CHE CI STO INSIEME PER AMBIZIONE. PERCHE’? CON LOREN, LOLLOBRIGIDA E CARDINALE SONO TRA LE PRIME ATTRICI ITALIANE. MA A DIFFERENZA LORO NON HO..." - VIDEO
-Oriana Fallaci e l'intervista con Monica Vitti pubblicata sull’Europeo nell’aprile 1963 e poi nel libro «Intervista con il mito» (Rizzoli, 2010) e ripubblicata su https://www.corriere.it/sette/
Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dal numero di «7» in edicola il 18 febbraio, vi proponiamo questa intervista di Oriana Fallaci a Monica Vitti, che apparve sul settimanale «l’Europeo» nell’aprile 1963 e poi su «Intervista con il mito» (Rizzoli) nel 2010. Buona lettura
Come sono contenta, signorina Vitti, di parlarle a quattr’occhi. Se non altro ciò mi permette di soddisfare una piccola curiosità: saper finalmente cosa significa quella parola... quella parola... Signorina Vitti, non ci crederà, ma son più di tre anni che questa parola mi tormenta, mi perseguita, mi esaspera, ed io chiedo agli amici: «Cos’è?». Me l’hanno spiegata in termini medici. Me l’hanno spiegata in senso filologico. Me l’hanno spiegata in chiave marxista...
Sì, sì sembra derivi direttamente dalla teoria del plusvalore: sa quello del «Capitale» di Marx. Ma io non l’ho capita lo stesso e così vado in giro, come Diogene col suo lumicino, come Caino con la sua colpa, insieme alla mia curiosità inappagata, la mia ignoranza mortificata, mentre questa parola cresce, si dilata, si gonfia: ed io ne ho tale complesso che non riesco più a pronunciarla. Signorina Vitti, lei che è il simbolo stesso di questa parola, sia buona, sia gentile, mi dica: ma l’alienazione, cos’è?!?
«A me lo chiede? Io che ne so? In casa mia questa parola non si è mai pronunciata; se lei ne ha il complesso, io la odio a tal punto che al solo udirla mi raggrinzo tutta come se udissi una parolaccia. Non mi sono mai posta neppure il problema di domandarmi da dove venisse, se dal Capitale o dagli Evangeli: e lei chiede a me cosa è. Insomma! Non l’ho mica inventata io. Siete voi giornalisti che l’avete inventata».
Guardi: io no di sicuro. Se è per questo, vo in Paradiso.
«Se non è stata lei, sarà stato un altro. Comunque, non io e nemmeno Antonioni che ne subiamo le barzellette più idiote. “Allora, signor Antonioni, lei è un alienato? Alienato mentale o alienato sociale?”. “Guarda la Vitti, fa l’alienata. Che vuoi farci, quella è alienata”. Dico: ma perché ve la prendete con me? Io sono un’attrice: che partecipa caldamente alle storie che interpreta, d’accordo, che fa volentieri i film di Antonioni, d’accordo, che è nota per quel personaggio, d’accordo. Ma un’attrice e basta. Perché volete confondermi con quel personaggio?».
Via, via, signorina. Non son io che rispondo ai giornalisti frasi del genere: «La mattina, quando mi alzo, mi sento in fondo a un abisso ed ho un gran terrore di ricominciare da capo». Signorina, di grazia, cosa vuol dire?
«Vuol dire che ho la pressione bassa e poiché ho la pressione bassa mi sveglio male e poiché mi sveglio male a volte son triste: la tristezza è un fatto biologico. Lo dice anche Rostand nel suo libro L’uomo artificiale ... Oddio, non vorrei insultare nessuno, mi si scusi se ho letto Rostand, leggere e istruirsi sta diventando una tal colpa, oggigiorno...
Dunque lo dice anche Rostand che allo stesso modo in cui un criminale non ha colpa di uccider qualcuno in quanto la criminalità è malattia, così un fiacco non ha colpa d’essere fiacco in quanto si sveglia con la pressione bassa. Questo è un discorso da intellettuali? Ma io i giochi intellettuali non son capace di farli, io son piuttosto ignorante, di cosa crede che parli con Michelangelo? Di incomunicabilità? L’incomunicabilità...».
Oddio, signorina, l’ha detta. L’ha detta lei quest’altra parola che io non riesco a pronunciare nemmeno. E, visto che l’ha detta, risponda: non le pare che questo vocabolario sia un tantino ridicolo? O, per usare un linguaggio “appropriato”, fuori della realtà? Non so, ma ogniqualvolta chiedo a qualcuno cosa ne pensi dell’incomunicabilità, quello si mette a ridere e dice: «Guardi, io comunico benissimo».
«E io no? Io comunico meglio degli altri. Sicché, scusi, le sembra giusto farmi subire il grottesco di una parola che dieci signori inventarono per sembrar più intelligenti o più colti? Dieci signori che un giorno videro un film, due film, tre film, e dopo aver sfogliato chissà quali libri scrissero: “L’alienazione, l’incomunicabilità...”. Dico: analizziamo L’eclisse che è il più difficile.
Che storia racconta? Quella di una ragazza che non ama più un uomo e lo pianta. Quando lo ha piantato, ne trova un altro. I due si piacciono, vanno a dormire, credono alla possibilità di un amore, e si danno un appuntamento. A questo punto però gli piglia paura, quella di impegnarsi troppo, chissà, quella di farsi imbrogliare, chissà, quella di subire una delusione, chissà, e non vanno all’appuntamento. Stop. Ma siccome Antonioni è un intellettuale, ci deve essere il sottofondo».
Senta, signorina Vitti, ma a lei i film senza sottofondo non piacciono? Voglio dire: per esempio, i western le piacciono?
«Da morire, io divento matta con i western. Quei saloons, quelle sparatorie, quelle cavalcate: matta divento. E i film comici? Quelli sì che mi piacciono. Totò, Alberto Sordi. Lo sa quante volte ho rivisto Totò nella Casbah? Cinque volte. Quando io lo guardo, mi agito, urlo, sghignazzo: perché al cinema ci sto come un ragazzino, oddio vengono, oddio che fanno, e chi sta con me non fa che raccomandarsi. “Stai zitta, per favore”. “Stai ferma, per favore”. Quando poi c’è Speedy Gonzales: sa il topo dei cartoni animati...».
E «Otto e mezzo» l’ha visto? Le è piaciuto?
«...dunque dicevo che, siccome Antonioni è un intellettuale, nei suoi film vogliono trovarci il sottofondo per forza. Bene, ammettiamo che il sottofondo ci sia, che ci sia un problemino: aiutatelo a capirlo, perbacco, non a complicare le cose».
Per quello, guardi, non è che voi due e soprattutto Antonioni aiutate gran che. Complicatini lo siete abbastanza quando parlate di... come si dice?... microrealismo, di... come si dice?... lirismo semantico... E comunque sia non mi pare che abbiate da lamentarvi del prossimo: di successo ne avete avuto parecchio, col benestare del prossimo. E il successo, naturalmente, ha sempre due facce: le pernacchie e gli applausi. Insomma, si paga.
«Microrealismo io? Lirismo semantico io? Ma vogliamo scherzare? Quando mai io e Antonioni abbiamo detto queste parolacce? Antonioni ha un tale pudore del suo mestiere che quando ne parla lo fa sempre con immenso disagio: certe cose però non sono mai uscite dalla sua bocca. E il successo che ha avuto, perché dovrebbe pagarlo? Se il cinema italiano è conosciuto nel mondo si deve anche a lui: ringraziarlo, dovrebbero, telefonargli ogni giorno e dirgli “Grazie, Antonioni, grazie di esistere”. Invece non fanno che fraintenderlo, attaccarlo, ferirlo. Dovrebbe vedere quello che soffre ad ogni minuscolo attacco: io soffro con lui».
Signorina Vitti, via quei lucciconi: sennò mi manca la forza di continuare. Ho il cuore tenero, signorina Vitti, lo sa. Coraggio! È passata? Sta meglio? Allora continuo. Signorina Vitti: lei sa, lei si rende conto, di non essere simpatica a molti?
«No. Non lo so. E mi stupisco di saperlo ora. Non mi è mai arrivata una lettera o un articolo che mi definisse antipatica. All’estero scrivono cose su me che mi fanno arrossire tanto son belle, quelli che tornan dall’estero non fanno che raccontarmi quanto si parla di noi. “Ma li conoscete Antonioni e la Vitti? Come sono?”. In Italia mi trattano bene. E allora a chi sono antipatica? A quelli di via Veneto? A quelli, guardi, preferisco essere antipatica. Comunque: perché dicono che sono antipatica? Perché? Me lo spieghi. No, non me lo spieghi. Non lo voglio sapere».
Lo deve sapere, invece. Non siamo mica qui per farci complimenti. Dicono che lei è antipatica perché è troppo ambiziosa...
«Grazie».
...perché a scopo di ambizione e carriera ha sacrificato la sua vera natura che è quella di una donna estroversa, entusiasta, appassionata...
«Grazie».
...perché pur di esser la Vitti si farebbe monaca di clausura e soffocherebbe ogni sentimento, ogni istinto. La gente dice tutto questo e altro.
«Grazie. Per oggi sto bene. Ma come?! Ma le sembro una donna che ha sacrificato all’ambizione la propria natura?! Ma le sembro una donna falsa, falsata? Le sembro una cerebrale suo malgrado, una fredda? La Vittoria di L’eclisse? Ma quando mai io mi sono sognata di dire “In fondo non è necessario conoscersi per volersi bene, in fondo non è necessario volersi bene”? Siamo matti?
Ma io sono una violenta, una sincera, e se mi levano l’amore mi impicco. Mi levate il pane, se mi levate l’amore. Io vivo per queste cose, per i sentimenti più semplici: se fossi ambiziosa, a quest’ora sarei miliardaria o almeno milionaria. In cinque mesi ho rifiutato sei film con cui avrei guadagnato un bel mucchio di soldi.
Ambiziosa perché? Perché mi rifiuto di far porcherie ad alto prezzo e preferisco fare i film di Antonioni per poco? Sono tra le prime attrici del cinema italiano, tra la Loren, la Lollobrigida, la Cardinale, lo dicono gli altri, non io, ma a differenza di loro non posseggo una pelliccia né un gioiello né una casa: a giugno devo traslocare da questa, in affitto, perché aumentano la pigione. Ambiziosa perché vivo vicino ad Antonioni? Ma volete ricordarvelo o no che quando conobbi Antonioni egli era nel periodo più nero di crisi? Che era appena uscito dalla amarezza procuratagli dalla cattiva accoglienza di II grido? Era un uomo importante, sì, ma perché lui era lui: non perché lo riconoscessero, allora, come uomo importante».
Signorina Vitti, senta che vento viene da quella finestra: come soffia. Peccato che questa non sia una registrazione radiofonica: l’effetto sarebbe bellissimo. Varrebbe un commento musicale: Monica, la tempesta dei sentimenti, e così via.
«Oh, lei troverà il modo di divertirsi lo stesso, lo so. Sembrava di leggere un romanzo della Brontë, scriverà, una voce nella bufera gridava “Monicaaa! Monicaaa!”. E che: è colpa mia se il vento soffia? Soffia perché gli va di soffiare e la finestra è rotta e io l’ho accomodata con lo scotch. L’alienata che accomoda la finestra con lo scotch: ma col merletto la dovrei accomodare se fossi alienata!».
Non scriverò proprio nulla di questo via i lucciconi. La ascolto. Sicché conobbe Antonioni...
«Ero fidanzata con un bravo e buon ragazzo, architetto di professione, quando conobbi Antonioni. Lo conobbi mentre doppiavo Dorian Gray in Il grido e mi difesi con tutte le forze dal momento in cui Michele mostrò interesse per me. Gli dicevo: “Signore, mi creda, ambizioni pel cinema io non ne ho. Signore, mi creda, non me ne importa nulla di fare il provino. Signore, mi creda, io sto per sposarmi e non devo pensare ad altro. Signore, mi creda, io amo l’uomo che sto per sposare”.
Con tutte le forze: ero talmente convinta che il mio fidanzato fosse l’uomo della mia vita, ero così sicura di amarlo che, per anni, non ho perdonato a Michele d’avermi fatto capire questa cosa terribile: che l’amore finisce. Lui e le sue chiare, lucide teorie sull’amore che finisce. Tant’è vero che l’amore per Michele non è ancora finito».
Questa è una notizia simpatica. Mi avevano detto che lei sta per lasciare Antonioni, che questo amore era più che finito: soprattutto da parte di lei.
«Balle. Lo dicono ogni quattro mesi da che ci vedono insieme. Mi telefonano perfino: “Allora è vero che vi lasciate tu ed Antonioni?”. Ed io sempre la stessa risposta: “Mi dispiace, no”. Naturalmente non posso mica giurare sull’eternità, dico solo che succede questo: Michele continua ad amarmi ed io continuo ad amare Michele. Non so... Conosco da sette anni Michele, sette anni non sono tanti ma non sono nemmeno pochi, e in questi sette anni non mi sono annoiata un minuto. Amare Michele è stato come... come amare dieci uomini, o venti, o trenta. Perché ride? Ciò la delude?».
Un pochino: trattandosi di una ragazza che simboleggia la ragazza moderna. Mi viene in mente, ecco, quella mia amica che, intervistata da un giornalista spagnolo che le chiedeva «Ma lei, signorina, non concepisce l’idea di passare la vita accanto ad un uomo?», rispose candida: «Uno solo?!». Signorina Vitti: che ne pensa della fedeltà?
«Io non me lo pongo nemmeno il problema della fedeltà: né da un punto di vista morale né da un punto di vista religioso. Io mi pongo un problema di sentimenti e quando ci sono i sentimenti c’è la fedeltà. Del resto, sa, la mia vita sentimentale fin oggi è stata abbastanza monotona. Vuole che la deluda ancora? Ecco: ho avuto per cinque anni un fidanzato, quello che stavo per sposare, poi ho incontrato Michele. Nessun altro. Nient’altro».
Complimenti. Ma finché c’è vita c’è speranza, signorina Vitti. Insomma: se le capitasse un altro amore, se le succedesse ciò che le è successo sette anni fa, cosa farebbe?
«Non lo so. Non lo vedo quest’uomo capace di farmi dare un dolore a Michele. Non lo so. Dovrebbe prima mettermi davanti quest’uomo: come faccio a dare una risposta precisa su una cosa che non mi è mai successa? Non si può decidere la vita a priori, non si può. Certo è che mi difenderei, come l’altra volta, il più possibile. Mi difenderei come una tigre. E, se perdessi, vorrebbe dire... bè, insomma, vorrebbe dire che non ci sarebbe altra scelta».
E se quest’uomo le chiedesse di rinunciare alle sue ambizioni, alla sua preziosa carriera, all’essere Monica Vitti... Dio, questo vento!...
«Ma che devo dirle? lo ho sempre trovato uomini che anziché domandarmi di rinunciare mi hanno domandato il contrario: di continuare il mio lavoro di attrice e di crederci. Le giuro che quando ero fidanzata, Dio che parola antipatica, mi vien da ridere a pronunciarla, insomma quando ero fidanzata io ero pronta, prontissima ad abbandonare il teatro per lui, per la famiglia che avrei creato con lui, per il figlio che avremmo avuto se lo avessimo avuto. E lui invece no, neanche per idea.
Faceva lo stesso ragionamento di Michele: “Più andrai avanti, più diverrai importante, più io ti amerò”. E così, fra tante donne cui si chiede soltanto di saper fare il minestrone, io mi trovo a dover lavorare di più, a dover essere più bella, più brava, più famosa, sennò mi amano meno. Boh! Il bello è che da me vogliono anche il minestrone perché “se-una-donna-in-casa-non-sa-far-niente-io-che-me-ne-faccio?”. Boh!».
Eh, sì. Ci vuole una gran pazienza ad essere donne, signorina Vitti. Ed è assai più difficile che essere uomini, assai più faticoso. Buongiorno, signor Antonioni. Come sta, signor Antonioni? Parlavamo di lei, signor Antonioni. A proposito, signor Antonioni, sia gentile, mi dica: ma l’alienazione cos’è?
«Non è certo una mia invenzione. Se legge quel meraviglioso libro che si chiama Acque di autunno del filosofo Zhuang-zi troverà ad un certo punto questa frase: “Non lasciate che le cose vi riducano a cosa”. Zhuang-zi fu maestro di Confucio, dicono, è certo comunque che Confucio andava spesso a chiedergli lumi. Visse dunque migliaia di anni avanti Cristo. Capito?».
No. Grazie lo stesso, signor Antonioni. Arrivederla, signor Antonioni.
Dunque, signorina Vitti: torniamo al minestrone. O meglio...
«Non ci torniamo affatto: ho parlato fin troppo di queste cose. Dio, non capisco, io sono così gelosa di certe cose e con lei... Il guaio è che comunico troppo. Lo diceva anche mia madre: “Maria Luisa...”. Sì, il mio vero nome è Maria Luisa Ceciarelli. Fino all’Accademia fui la Ceciarelli. Poi Tofano mi propose di diventare attrice giovane nella sua compagnia, di fare Brecht, Molière, e mi disse: “Guarda il nome che hai non è mica tanto da attrice, lo devi cambiare”.
Allora io sedetti al tavolino di un bar e mi misi a studiare il nome. Volevo prendere mezzo cognome di mia madre che si chiama Vittiglia, e Vitti andava benissimo. Monica andava bene con Vitti e così, dopo averlo scritto due o tre volte, pronunciato cinque o sei, debuttai come Monica Vitti. Ora sono talmente Monica Vitti che mio padre e mia madre mi chiamano Monica anziché Maria Luisa ed io, quando devo firmare Ceciarelli, mi sento a disagio: quasi firmassi col nome di un’altra».
Questo mi sembra abbastanza significativo in una ragazza che si è costruita con tal decisione. Mi dica, signorina Vitti: mi sbaglio a dire che si è costruita con la stessa decisione con cui ha costruito il suo nome? E cos’altro ha cambiato? La voce? Il volto? La calligrafia?
«La voce, no. La calligrafia nemmeno. Il volto, sì. Io mi sono fatta fisicamente così perché volevo essere fisicamente così. Dovrebbe vedere le fotografie di sette anni fa per capire quanto sono cambiata. O meglio: la serietà con cui mi sono cambiata. Non sembro nemmeno la stessa persona. Dio com’ero brutta. A volte dico a Michele: “Ma come hai fatto ad interessarti a me se ero così brutta?”. E lui: “Ma io lo sapevo che eri così”. Vede: le donne belle invecchiando imbruttiscono. Le donne brutte invecchiando migliorano.
È un gran sollievo. Non che faccia moltissimo per migliorarmi, intendiamoci. Non riesco a far diete, non riesco a fare ginnastica, e lo sport... Uh, lo sport! Quando mi provo mi stanco subito, oddio che fatica, oddio che male, io non amo lo sport, so nuotare e basta, non capisco chi fa lo sport, l’altro giorno ho conosciuto un ciclista, uno che va forte in salita, Taccone si chiama, e lo guardavo come si guarda un marziano. E poi non mi do cipria, non mi tingo le labbra perché col rossetto mi sembra d’essere sporca. Tuttavia...».
Tuttavia com’è ora si piace: ed ha ragione perché è una gran bella ragazza. Però l’estate scorsa, a Venezia, io ho assistito a una scena piuttosto bizzarra. Era entrata in mare per una nuotata e, poiché c’erano tanti fotografi ad aspettarla sulla spiaggia, non voleva più uscire. Dovemmo prendere un asciugamano, portarglielo nell’acqua, e con quello addosso, drappeggiata in modo che sembrava una mussulmana velata, uscì. Certo non lo fece per attirare attenzione: ricordo che era davvero sconvolta. Allora, perché?
«Mi vergognavo. Ma lo sa che fino a quattro anni fa, insomma fino a quando ho girato L’avventura, al mare io non camminavo mai davanti ai ragazzi? Sempre dietro: con certe vestaglie lunghette e l’ossessione che scoprissero chissà che. Insomma, mi vergogno: ma non per pudore, perché mi sento brutta. Non so... vorrei essere più magra, avere la vita più lunga, le gambe più sottili, e così... Ecco, io in bikini non mi ci sono mai messa e non mi ci metto nemmeno se mi ammazzano.
Del mio corpo mi va bene soltanto il volto: a parte il naso che è un po’ troppo lungo, le mascelle che sono un po’ troppo pronunciate, gli occhi che sono un po’ troppo chiusi. Il resto... Ma che importanza ha? La bellezza fisica non ha che la minima parte nella vita di una creatura. Prenda un uomo bello: dopo un anno si è già abituate alla sua bellezza, e ci si annoia.
Un uomo non bello invece dopo tre mesi piace di più e dopo un anno lo si adora perché, per superare la sua mancanza di bellezza, ci si è messe a osservarlo e si è scoperto cose sensazionali di lui. Dio mio: datemi un uomo bello che sia anche intelligente, che sia anche interessante, e me lo sposo subito, ci metto trenta firme in municipio: ma è così difficile che un uomo bello abbia altre virtù!».
Sicché, se le chiedessi di dirmi i nomi di tre uomini belli che le piacciono molto... Oh, non si offenda per carità. Capisco che la domanda è frivola, indegna della sua saggezza, ma fu posta perfino a Laureen Bacall che, come sa, è una egghead.
«E che è questo egghead? Egghead non me lo aveva mai detto nessuno. Egghead?! Boh! Tre uomini belli... vediamo. Quand’ero ragazzina mi piacevano Glenn Ford e Gregory Peck ma ora, sarò una egghead, gli attori non mi piacciono più. Quando uno è attore, chissà perché... Boh!
Sarò una egghead, ma lo sa chi mi piace da morire? Oppenheimer. Ma ha visto che occhi, che testa, che eleganza? E poi, sarò una egghead, ma lo sa chi mi piace tanto? Ingmar Bergman. Lo conosce? Sì? Ho ragione? Sì? Vorrei conoscerlo anch’io. Peccato che lui stia in Svezia, e che io odi viaggiare».
Strano che una donna moderna come lei non ami viaggiare. Viaggiando si impara.
«Moderna io?! Ma se non so guidare l’automobile, se ho paura a salire in aereo! L’automobile, con quei bottoni, quelle leve, quelle ruote, spingi qua, solleva là, no, no! Che qualcuno mi porti, io guardo fuori. A parte il fatto che, se fosse per me, userei la carrozza. E l’aereo! Questa scatola orribile dove il tuo destino è legato al destino di cento altre persone, no, no! A parte il fatto che l’aereo uccide la fantasia, quella meravigliosa avventura che è lo spostamento, il paesaggio che cambia. C’è uno spazio tra Roma e Parigi, c’è un paesaggio che cambia, ma se vado in aereo vedi sempre le medesime nuvole: e sono le nuvole di quando vai a Tokyo o a New York. Meglio il treno: lo spazio e il tempo e il paesaggio esistono ed io non voglio perderli».
Eppure appartiene ad una famiglia di viaggiatori. Se non sbaglio suo fratello Franco emigrò giovanissimo in Brasile, suo fratello Giorgio abita al Messico, e anche i suoi genitori vanno e vengono tra l’Europa e l’America.
«Loro sono diversi: hanno spirito di avventura, di curiosità, di evasione. Si divertono a stare tra gente diversa che parla una lingua diversa. Io no. Quando si trasferirono al Messico mi chiesero: “Vieni?”. E io: “Perché dovrei? Mi piace qui, sto bene qui”. A che serve scoprire l’India e il Giappone e l’Amazzonia quando ci sono tante cose da scoprire in Italia? Sono stata in Sardegna e ho scoperto un mare celeste come non esiste nemmeno alle Antille, scommetto, e rocce rosa come non ne esistono nemmeno alle Hawaii, scommetto.
E ho scoperto altre cose interessantissime, ad esempio che le case dei pescatori sardi hanno una sola parete chiusa: ed è quella che guarda il mare. Forse perché i loro nemici sono sempre venuti dal mare ed ora hanno sete di terra. Sono stata a Verona ed ho scoperto qualcosa che vale tutti i minareti del mondo: quei fossili meravigliosi con l’impronta di un pesce, di una foglia, o di un’alga. No, tutte le volte che io mi allontano dall’Italia, ho un solo pensiero: tornarci».
A parte il fatto che in Italia c’è la carriera, ci sono i film di Antonioni, e c’è quello squisitissimo male che si chiama successo...
«E daje co’ l’ambizione! Ma non avete ancora capito che i film di Antonioni sono film per il regista, non per l’attrice? Non avete ancora notato che nei film di Antonioni non c’è mai una scena madre? Non vi siete ancora accorti che a veder sempre la mia faccia la gente si stanca? Ma lo sa cosa pretende Marlon Brando nelle sceneggiature? Che il pubblico si esasperi con gli altri attori, così, quando si è esasperato ben bene, arriva lui con la sua scena madre, col suo primo piano, e ci fa un figurone. Lei pensa davvero che star sempre sullo schermo, come si fa nei film di Antonioni, sia un vantaggio per l’attore? Ma a teatro la prima donna non giunge mai al primo atto, arriva al secondo! E ci arriva con la sua scena madre. Io, invece, mai che abbia avuto una bella scena madre».
Signorina Vitti: sta cercando di dirmi che recitare nei film, di Antonioni non è affatto un vantaggio per lei? Gli ingrati vanno all’Inferno.
«Ma è chiaro che a Michele devo tutto quello che sono. Qui si parla di ciò che serve a un attore e dico che è assai più difficile esprimere sentimenti con la faccia ferma che con le lacrime di glicerina. E poi, chi parla di piangere? Se c’è una cosa che io so far bene, è far ridere. Non dimentichi che di parti comiche in commedie comiche ne ho fatte molte in teatro: da Feydeau a Ionesco.
Oh, Dio! Datemi una parte comica, che faccia ridere, ridere, ridere! Un’attrice com’era Kay Kendall, ecco cosa vorrei essere. Con la sua ironia, il suo spirito, il suo sottile umorismo... Pronto? Chi parla?
Ma sì, caro amico, certo che fo il prossimo film di Antonioni, sì, quello a colori, si chiama Deserto, siamo qui ad aspettare, da quattro mesi siamo qui ad aspettare, non è straziante? È tutto pronto, siamo tutti pronti, pronta io, pronto Michele, pronto Hardy Kruger, il mio partner tedesco, non manca che un certo signore il quale deve dare i soldi ma non li dà! Non è orribile dover sempre ricominciare da capo, soffrire come se fossimo ancora ai tempi dell’ Avventura? Mi fa impazzire, mi fa piangere, mi fa...»
Signorina Vitti, che parte avrà nel «Deserto»? Non certo comica, immagino.
«Ma che dice? Intende scherzare? Vuole offendere Michele? Una parte serissima, chiaro. La parte di una donna che, dopo uno choc depressivo, cerca di reinserirsi nella realtà. E non ci riesce».
Signorina Vitti, c’entra l’alienazione?
«Ma lei è venuta a intervistare me o l’alienazione?».
Signorina Vitti: sia gentile, sia buona, mi dica: ma l’alienazione cos’è?!?
(Intervista pubblicata su «Intervista con il mito» Rizzoli, 2010)