“I NOSTRI REPARTI DOVRANNO VIVERE LA STESSA VITA CLANDESTINA DELLE BRIGATE ROSSE” – CARLO ALBERTO DALLA CHIESA E LA STORIA DEGLI "AGENTI MONACI" CHE SCONFISSERO LE BR. ERANO VINCOLATI ALLA MASSIMA SEGRETEZZA, ANCHE PER COMBATTERE IL “CONTROSPIONAGGIO” DEI BRIGATISTI – PRESERO ANCHE UN FINTO TAXI PER PEDINAMENTI IN TOTALE SICUREZZA…
-Adriano Scianca per la Verità
Per combattere un criminale devi pensare come lui. Quante volte lo abbiamo sentito dire nei polizieschi americani? Fuori dall'orizzonte della fiction, è esattamente così che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa impostò la sua guerra al terrorismo, quando, negli anni Settanta, creò il Nucleo speciale antiterrorismo.
«Da oggi», disse, «nessuno di voi ha più un nome, una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò una casa, io vi ordinerò dove andare e cosa fare. I nostri reparti dovranno vivere la stessa vita clandestina delle Brigate rosse».
Così nacquero i «monaci», come venivano chiamati, del Nucleo speciale antiterrorismo. La vicenda, poco nota, di questo reparto speciale, è narrata nel recente Il coraggio tra le mani, del giornalista Emiliano Arrigo (Historica). Il saggio è in realtà un lungo colloquio con Nero, uno dei componenti del Nucleo speciale antiterrorismo.
«Posta la specificità del mondo dell'eversione nazionale», spiega nella prefazione il generale Mario Mori, uno dei protagonisti di quell'avventura, «Dalla Chiesa comprese che era assolutamente necessario creare una struttura a sé stante, costituita da "investigatori nuovi", che a una formazione professionale adeguata, potessero aggiungere esuberanza e freschezza operativa, perché integrati nella cultura giovanile dell'epoca; lo stesso ceppo quindi da cui originavano gli esponenti delle formazioni eversive, sia di destra che di sinistra.
Certamente una tipologia di militari dell'Arma un po' fuori dai canoni tradizionali». Pensare come il nemico che si vuole combattere, appunto. C'era però anche un altro motivo che spinse i vertici dello Stato a cambiare approccio al terrorismo: la presenza, in seno alle organizzazioni eversive, di vere e proprie centrali di controspionaggio. I brigatisti si informavano, facevano indagini, compilavano dossier, pedinavano.
Sapevano tutto, per esempio, degli uomini della Digos. Era quindi importante che non sapessero nulla degli agenti speciali che dovevano dar loro la caccia. «Era fondamentale», racconta Nero, «che nessun brigatista vedesse chi entrava o usciva dalla sezione e, soprattutto, nessuno di loro doveva vedere chi avevamo a bordo con noi.
Pertanto, una nostra auto usciva in anticipo rispetto a tutte le altre, bonificava il territorio circostante e, dopodiché, se tutto era tranquillo, via radio si dava l'okay per l'uscita degli altri mezzi. E stesso discorso avveniva quando dovevamo rientrare in sezione».
Per la medesima ragione, nessun agente poteva portare in caserma parenti o amici. E gli stessi componenti del gruppo erano scelti tra carabinieri che non avessero svolto in precedenza altre mansioni «al pubblico»: non si poteva certo rischiare di mettere alle calcagna di un terrorista lo stesso agente che qualche anno prima aveva raccolto la denuncia dell'estremista per una carta d'identità smarrita...
Fra agenti e brigatisti si instaura una sorta di partita a scacchi, in cui oltre alla preparazione militare è essenziale anche la strategia, la furbizia, l'inventiva. Nel libro, Nero parla per esempio dell'arresto di un estremista che fu raccontato ai media in modo sensibilmente diverso da come in realtà era avvenuto: «Si disse che l'arresto era avvenuto nell'ambito delle attività di controllo della metropolitana finalizzata al contrasto della criminalità comune».
A che scopo introdurre il particolare della metropolitana, se non era vero? «Perché volevamo indurre i brigatisti a non utilizzare la metropolitana visto che a quei tempi le nostre apparecchiature radio lì sotto erano pressoché inutilizzabili», spiega l'ex agente.
Anche i pedinamenti dovevano tener conto della capillare opera di controspionaggio messa in campo dalle Br:
«Noi», spiega l'ex agente speciale, «potemmo disporre di targhe di copertura, cosicché, se i brigatisti avessero sospettato di essere pedinati e avessero registrato le nostre targhe, non sarebbero comunque potuti risalire al vero proprietario. Inoltre, grazie ai nostri colleghi sparsi su tutto il territorio nazionale, potemmo contare anche sulle targhe di qualunque città.
Ad esempio, se per una operazione si andava a Rieti, avevamo a disposizione le targhe di Rieti. Se si andava a Frosinone, avevamo le targhe di Frosinone. E così via». A un certo punto, il Nucleo speciale antiterrorismo arrivò a disporre di un proprio taxi fasullo, una Fiat Ritmo gialla di volta in volta guidata da un agente differente, per la disperazione di quanti si sbracciavano per prenotare la corsa di fronte a un taxi che sembrava sempre fuori servizio e che girava per la città cercando ben altro che clienti.