“LA RECITAZIONE OSCILLA TRA MOSSETTE E MOSSACCE DA COMMEDIA SCORREGGIONA” – ALBERTO MATTIOLI STRONCA “LE COMTE ORY”, NUOVA PRODUZIONE DEL “ROSSINI OPERA FESTIVAL”: “È DECISAMENTE MAL RIUSCITA. HUGO DE ANA, SI ISPIRA A HIERONYMUS BOSCH PER RAGIONI DIFFICILI DA DECIFRARE. LA SCENA È SEMPRE STRAPIENA DI TUTTO, ANZI DI TROPPO” – “ORY-FLOREZ HA SEMPRE LE MANI SUL SEDERE O SULLE TETTE DI QUALCHE COMPARSA, E VIVA LA FINEZZA. L’INSIEME È STUCCHEVOLE E ALLA LUNGA INSOPPORTABILE. INSOMMA, UN DISASTRO. È VERO PECCATO PERCHÉ LA COMPAGNIA È ECCELLENTE…”
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Alberto Mattioli per www.lastampa.it
Dopo “Otello”, l’altra nuova produzione del Rossini Opera Festival di Pesaro è “Le comte Ory”, ed è decisamente mal riuscita. Il titolo è uno dei più sfuggenti di Rossini. Opera per l’Opéra del 1828, ma “piccola” (un “petit opéra” in epoca di “grand opéra”: interessantissimo il saggio di Mark Everist sul programma di sala), è uno dei titoli più sfuggenti di Rossini: un’elegantissima, sofisticata commedia erotica e, insieme, la parodia del gusto troubadour e dell’imperversante gotico di cartapesta: in fin dei conti, mancano appena sette mesi al leggendario bal masqué “Mary Stuart” della duchessa di Berry.
Il regista, scenografo e costumista, Hugo de Ana, si ispira a Hieronymus Bosch per ragioni difficili da decifrare (Medioevo surreale? Straniamento? Peperonata alla sera? Boh) mischiato a costumi contemporanei di un kitsch talmente oltraggioso per non essere voluto. La scena è sempre strapiena di tutto, anzi di troppo: mimi, figuranti, coristi e le stesse folli figure di Bosch in versione tridimensionale.
La recitazione oscilla fra mossette, continue e insopportabili, come un Ponnelle avariato, e mossacce da commedia scorreggiona anni Settanta: Ory-Florez ha sempre le mani sul sedere o sulle tette di qualche comparsa, e viva la finezza. L’insieme è stucchevole e alla lunga insopportabile.
Nell’introduzione strumentale del terzetto “À la faveur de cette nuit obscure”, la gemma della partitura, una pagina notturna e sensuale come poche, entrano in scena sei comparse vestite da uccellacci di Bosch, chissà perché poi: il tedesco seduto davanti a me ride, l’incanto è distrutto. Insomma, un disastro.
Vero che oggi si teorizza che le regie d’opera devono essere pensate a misura del cervello dei tredicenni “che altrimenti non capiscono”, come dicono appunto quelli che hanno un cervello da tredicenni: ne ho osservato uno, e in effetti si divertiva. Per “Le comte Ory”, sarà per un’altra volta.
Incredibile poi che non venga usata l’edizione critica della partitura (a Pesaro?). Diego Matheuz abbadeggia finché può: ma, a parte la distanza irraggiungibile dal modello, “Le comte Ory” è “Il viaggio a Reims” solo per metà e nelle pagine più programmaticamente francesi si dovrebbe sentire un uso e un gusto per il colore orchestrale che in questa direzione così secca e schematica manca del tutto. L’Osn Rai e il Coro del Ventidio Basso fanno disciplinatamente il loro dovere.
È vero peccato perché la compagnia è eccellente. Specie le signore, Julie Fuchs che fa la Comtesse e Maria Kataeva che è Isolier, non solo cantano splendidamente, ma lo fanno con una finezza di intenzioni e un’eleganza di fraseggio ancora più stridenti nella volgarità che le circonda.
Nahuel Di Pierro esce con onore dalle sue colorature, anche se la voce sembra piccina, da Gouverneur mignon; Andrzej Filonczyk canta l’aria di Raimbaud con buona voce ma senza differenziarne abbastanza le strofe. Ci sono anche Anna-Doris Capitelli come Alice e la gloriosa Monica Bacelli come Dame Ragonde, che nell’Introduzione deve cuocere delle uova al tegamino per ragioni incomprensibili (grande giubilo del ricordato tedesco, comunque).
Resta il caso di Juan Diego Flórez, Ory. E qui, arcichapeau: è almeno un quarto di secolo che canta questa parte, e che continui a farlo con questa volteggiante disinvoltura, questi acuti limpidi e sicurissimi, questa eleganza di canto e di fraseggio significa che si tratta davvero di un grande cantante. Ma c’è un “ma”.
In questa parte, l’interprete non è mai stato all’altezza del vocalista. Come tutte le parti scritte per il grande Adolphe Nourrit (il tenore più intellettuale della storia, un ossimoro vivente) da personaggi come Rossini, Meyerbeer o Halévy che cucivano le parti addosso non solo alla sua tessitura ed estensione, ma anche alla sua personalità, Ory è un personaggio contraddittorio, con una vena sulfurea o addirittura demoniaca.
In effetti, un Don Giovanni da boulevard, almeno per l’idea che si aveva all’epoca di Don Giovanni. Di questo rovescio della medaglia “nero” del personaggio, nell’Ory di Florez non c’è mai stata traccia: resta sempre il bravo ragazzo sorridente che fa ridere tutti, e non vi dico il mio tedesco, quando si traveste da suora. Probabilmente, Flórez non ha mai incontrato un regista e/o un direttore che di questo gli abbiano parlato, invece di fare il Bagaglino: ma poiché è anche direttore artistico del Rof, in questo caso la colpa è sua. Comunque la Vitrifrigo è meno vuota che per “Otello” e il pubblico applaude, con punte di estasi teutonica: quindi se lo spettacolo non piace la colpa è senz’altro mia.