“E SE CAMBIASSIMO NOME AL PCI?” – NEL NUOVO SAGGIO DI MARCELLO SORGI L’IDEA DI ENRICO BERLINGUER E IL COLLOQUIO NEL 1974 AD AGRIGENTO CON ACHILLE OCCHETTO CHE PROPOSE DI CHIAMARLO PARTITO COMUNISTA DEMOCRATICO - BERLINGUER RISPOSE: “NON SONO D’ACCORDO, PER DUE RAGIONI. LA PRIMA È L’AGGETTIVO “DEMOCRATICO”, PERCHÉ STAREBBE A DIRE CHE FINORA NON LO SIAMO STATI. E LA SECONDA È CHE…” – L’INCONTRO CON SCIASCIA A CENA E LA RECENSIONE DI ALDO CAZZULLO
-Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” - Estratti
Enrico Berlinguer è ad Agrigento, in campagna elettorale per il referendum sul divorzio, nel 1974. Il segretario regionale del partito in Sicilia, Achille Occhetto, bussa alla porta della sua stanza. Berlinguer sta passeggiando su e giù. Si ferma, guarda Occhetto e gli chiede: «Cosa ne diresti se cambiassimo nome al partito?».
È un discorso — quello di Berlinguer che voleva cambiare il nome al Pci in tempi non sospetti, quindici anni prima della caduta del Muro — che Achille Occhetto ha avviato in un’importante intervista con Francesco Verderami sul Corriere . Ora l’ultimo segretario del Pci offre altro materiale agli storici nel nuovo saggio di Marcello Sorgi, che Chiarelettere manda oggi in libreria, significativamente intitolato San Berlinguer .
Berlinguer chiede a Occhetto: «Tu che nome sceglieresti?». Occhetto risponde: partito comunista democratico. Berlinguer risponde: «Non sono d’accordo, per due ragioni. La prima è l’aggettivo “democratico”, perché starebbe a dire che finora non lo siamo stati. E la seconda è che se restasse anche “comunista”, il passo sarebbe troppo piccolo».
Quella campagna elettorale si concluse con la vittoria del No all’abolizione del divorzio, quindi (anche) con una vittoria del Pci. Le Amministrative del 1975 e le Politiche del 1976 avrebbero segnato il massimo storico per il partito. Berlinguer, presagendo tutto questo, si era posto il problema di andare oltre il comunismo e il rapporto con Mosca, per cogliere appieno la spinta progressista che veniva dalla società italiana, e anche — come nel libro fa notare Walter Veltroni — per poter un giorno andare al governo.
Ma non ebbe il coraggio di procedere sino in fondo. E negli anni successivi subì l’iniziativa politica di Craxi, che offrendosi alla Dc del preambolo anticomunista si impadronisce del centro della scena, mentre Berlinguer pone il tema della «diversità comunista» e della questione morale.
(...) Sorgi assiste all’incontro tra Berlinguer e il più illustre dei collaboratori del giornale, Leonardo Sciascia, che accetta di candidarsi al consiglio comunale di Palermo con il Pci.
Il segretario generale e lo scrittore vanno a cena insieme, siedono uno di fronte all’altro, e non si dicono una parola. Sciascia si congeda presto. Un minuto dopo si alza e se ne va pure Berlinguer, tra lo sconcerto dei presenti. Uno sconcerto che aumenta quando Berlinguer commenta che la cena è andata «molto bene».
In fondo Berlinguer e Sciascia si erano già detti tutto, uno offrendo la candidatura, l’altro accettandola. Eppure Sciascia era scettico sul compromesso storico, la linea lanciata da Berlinguer nel 1973, dopo il golpe in Cile e la riflessione di Chiaromonte sull’impossibilità per la sinistra di governare con il 51%. Ma in fondo l’incontro con i cattolici era il proseguimento della politica di Palmiro Togliatti.
A farlo notare è Massimo D’Alema, che racconta l’ultimo viaggio a Mosca con Berlinguer, per il funerale di Andropov. La sera, a cena a casa del corrispondente dell’ Unità Giulietto Chiesa, Berlinguer enuncia un po’ per scherzo un po’ sul serio le tre leggi non scritte del socialismo reale: «I dirigenti mentono. Sempre, anche quando non sarebbe necessario. L’agricoltura non funziona. Mai, in nessuno di questi Paesi. E le caramelle hanno sempre la carta attaccata».
Era capace anche di sorridere, il timido, riservato, schivo Berlinguer. Ma la sua storia era destinata a incrociarsi con la tragedia. Nel 1973 a Sofia dopo un burrascoso incontro con Todor Zhivkov resta ferito in un attentato. Nel 1978 il rapimento e la morte di Aldo Moro sanciscono la fine del compromesso storico e quindi il fallimento della strategia su cui Berlinguer aveva puntato tutto: perché il vero logoratore non era Moro, della cui sincerità Berlinguer e pure i suoi eredi non dubitavano, ma l’altro protagonista destinato a restare in campo, Giulio Andreotti.
La morte improvvisa, sul campo — «come se Maradona fosse morto facendo una rovesciata» annota Miguel Gotor —, accresce e fissa nel tempo quell’aura di rigore e sacrificio sino al martirio che avvolge la figura del segretario generale. Un santo laico del partito-chiesa: san Berlinguer, appunto. Le due impressionanti ali di folla tra cui passa il feretro, nel ricordo delle figlie Bianca e Maria, sono il segno concreto dell’affetto che lo circondava.
E la visita a sorpresa di Giorgio Almirante, accolto alle Botteghe Oscure da Giancarlo Pajetta, suggella anche il rispetto dei nemici (avvisaglia dell’omaggio recentissimo tributato a Berlinguer da La Russa e dalla Meloni). Eppure due uomini vicini a Berlinguer come Claudio Petruccioli e Piero Fassino ancora oggi si disputano la paternità dell’aneddoto della morte dello scacchista: il campione viene sfidato, capisce che può perdere, si prende la testa tra le mani per meditare l’ultima mossa, ma resta immobile fin troppo tempo; qualcuno lo scuote pensando che stia dormendo, e si accorge che è morto.
«Morendo ha rinunciato a giocare fino in fondo la partita per vincerla; ma ha impedito anche allo sfidante di vincere. In un certo senso, è stata la parabola finale di Berlinguer nel confronto con Craxi».