“SONO CANZONI CHE NON CANTEREMO E NEMMENO BALLEREMO” – DARIO SALVATORI FA A PEZZI I TERRIBILI BRANI DELL’“EUROVISION SONG CONTENT”: “PER ORA C’È POCO DA ASCOLTARE, MOLTO DA DIMENTICARE. VEDENDOLI SFILARE UNO DOPO L’ALTRO CON LA BASE, CON I TAPPETI MUSICALI, SEMBRA ABBIANO PRESO ALLA LETTERA IL COMANDAMENTO DI ACHILLE LAURO: ANDARE PRIMA DAL COSTUMISTA POI SEMMAI DALL’ARRANGIATORE. PER ANNI LA RAI HA TEMUTO DI VINCERE L’EUROVISION PER POI DOVERLA ORGANIZZARE L’ANNO DOPO, POI …” - VIDEO
-Dario Salvatori per Dagospia
Gli oltre cinque milioni di spettatori di Eurovision avranno creduto di essere a Las Vegas dei tempi d’oro, quando ancora sotto i neon non stazionavano gli homeless. La Las Vegas del “Sand” e del “Caesar Palace”, quando Frank Sinatra canticchiava e Mick Jagger era un bambino. Proprio così. Nel 1952 Blue Eyes era sgonfio come un pallone dell’oratorio ma all’improvviso lo chiamarono per interpretare il ruolo del sergente Maggio nel film “Da qui all’eternità”. Paga al minimo sindacale. Oscar per il ruolo non protagonista.
Fu quel brutto ceffo di Sam Giancana a procurargli quel ruolo. Negli stessi giorni a Dartford, trenta chilometri da Londra, Jagger conobbe il brutto ceffo della sua vita: Keith Richards. “Bisognerebbe sempre giocare onestamente quando si hanno le carte vincenti”, diceva Oscar Wilde e dunque bisogna essere audaci. La città di Torino ne è un esempio. Per anni la Rai ha temuto di vincere l’Eurovision per poi doverla organizzare l’anno dopo, salvata da molte piazze d’onore, secondo e terzo posto, poi sono arrivati i Maneskin e tutti si sono dovuti rimboccare le maniche. Ottenere un risultato del genere, con un cast di diciassette sconosciuti, almeno per il target di Raiuno, non era uno scherzo, eppure è andata.
Un pubblico attratto da tuoni e fulmini, da trovate equestri, esagerate, kitsch di repertorio, citazioni anni Ottanta e Novanta, coreografie mutuate da Sergio Japino e Franco Miseria, generici col pass e pubblico pagante. Stesse reazioni. Si dirà: ma non era già così trenta anni fa? Non del tutto. Come si può inneggiare al sesso libero di Chanel, in corsa per la Spagna, quando la barbuta Conchita Wurst vinse per l’Austria nel 2014? Per ora c’è poco da ascoltare, molto da dimenticare. “Milano è vicino all’Europa”, cantava Lucio Dalla. Eccola la risposta, alle prese con l’omologazione totale. Anche le nazioni poco attrezzate, con una discografia mai partita, con sguarnite tradizioni popolari, riescono a fare la loro porca figura. Sempre porca, però.
Vederli sfilare uno dopo l’altro con la base, con i tappeti musicali, sembra che abbiano preso alla lettera il comandamento di Achille Lauro: andare prima dal costumista poi semmai dall’arrangiatore. Già, perché in fondo l’app non si nega a nessuno e forse nemmeno una vittoria. Quella della Kalush Orchestra, data dagli allibratori al 49%, con tanto di standing ovation e con un pensiero per la devastata Ucraina, mentre “Brividi” di Blanco e Mahmood e ancora ferma all’11%. Il brano della Kalush Orchestra poteva essere un “instant song”, un pezzo a caldo contro Putin, invece “Stefania” è una canzone dedicata alla mamma del leader, Oleh Psiuk.
Quando l’Ucraina vinse per la prima volta nel 2016 con “1944”, eseguita da Jamala. Il testo toccava l’occupazione russa ed era molto evidente, anche se mascherato da un titolo che poteva richiamare la fine delle ostilità. Sono canzoni che non canteremo e nemmeno balleremo. Nata nel 1956, di cinque anni più giovane di Sanremo, l’Eurovision doveva essere il primo mattoncino per l’Europa. Coetanea della Coppa dei Campioni, come si chiamava all’epoca, che proprio da quell’anno consegnò il trofeo per cinque edizioni di seguito al Real Madrid, che poteva contare su un tridente offensivo stellare: Di Stefano, Puskas, Gento.
Non si può dire lo stesso per il Festival di Sanremo, anche se “Aprite le finestre” di Franca Raimondi metteva di buon’umore solo a sentirla. Nello stesso anno vinceva il Festival di Napoli “Guaglione”, cantata da Aurelio Fierro, questa si che fece il giro del mondo. Le visualizzazioni le avrebbero messe tutti gli altri interpreti che l’avrebbero cantata in tutte le lingue.