“SONO SPALANCATA COME LE GAMBE, NON C’HO PROBLEMA” – GIANNA NANNINI NO LIMITS NEL TRENTESIMO ANNIVERSARIO DEL PRIDE: “SONO NATA SENZA GENERE. ETERO-GAY-LESBICHE-TRANS-TRANSGENDER-BISESSUALI-FLUIDI-NON BINARI: BASTA ETICHETTARE LA GENTE. È UN SISTEMA SORPASSATO COME L’AZZURRO E IL ROSA” - CARLA, LA DONNA CON LEI DA 40 ANNI, NON VA DEFINITA NÉ MOGLIE NÉ COMPAGNA, MA “AMICA DI UNA VITA” – “IN INGHILTERRA, CON L’UNIONE CIVILE, HO OTTENUTO LA STEPCHILD ADOPTION: IN ITALIA COME DONNA CHE HA AVUTO UNA FIGLIA DA SOLA ERO SENZA TUTTE QUELLE PROTEZIONI” – IL RAPPORTO COL PADRE “POSSESSIVO”
Estratto dell'articolo di Paola Zanuttini per “il Venerdì di Repubblica”
Forse ha ragione, Gianna Nannini. Ripete che nei Paesi evoluti queste interviste non si fanno più, che non ha senso chiederle del suo orientamento sessuale, o se poteva esporsi di più in favore delle persone Lgbt e via alfabetando. Perché nelle sue scelte di vita e nelle sue canzoni, a partire da Lei, 1979, è tutto sotto la luce del sole e dettagliato ancor più nell’autobiografia Cazzi miei, 2017, alla base del film Sei nell’anima, da maggio su Netflix. E specifica: «Sono spalancata come le gambe, non c’ho problema».
Però, in Italia, siamo al trentesimo anniversario del Pride e, in fase di contrazione dei diritti, è saggio continuare a discutere su quelle libertà ormai scontate nei Paesi più evoluti, ma non qui. Si negozia, quindi. Intervista concessa, ma con un prologo, o proclama, di suo pugno: STOP BRAND PEOPLE! (Basta etichettare la gente!), che qui riportiamo, appena rifilato.
«Sono nata senza genere. È una questione di stile poetico, una risonanza che viene da molto lontano, visto che l’identità non dipende dalla sessualità ma dalle emozioni legate ad essa. E ora è arrivata l’ora di non discriminare più in funzione delle etichette”etero-gay-lesbiche-trans-transgender-bisessuali-fluidi-non binari”.
BASTA!Non farsi etichettare è l’obiettivo. A cosa sono serviti i vari coming out, a incasellare un orientamento sessuale? È questo che serve per sentirsi più liberi? Bisogna liberarsi dalle etichette, dal pregiudizio, dall’intolleranza – e dalla benevolenza degli eterosessisti (i radical chic del sesso). Io non mi riconosco in nessun brand, è un sistema sorpassato come l’azzurro e il rosa che identificavano i bambini. Appartengo solo alla libertà di pensiero. Ma forse, se fossimo già a questo punto, non lo so se mi fareste oggi quest’intervista... Facciamola!».
Sì, facciamola, tenendo anche conto che, per le ragioni di cui sopra, Nannini non vuole essere qualificata come omosessuale né bisessuale; che Carla, la donna con lei da quarant’anni, non va definita né moglie né compagna, ma «amica di una vita». Fra gli altri né né sono incluse Meloni e Schlein: di politica non si parla. Però va detto che, contro le guerre e in difesa del Pianeta, Nannini si è mobilitata assai, con viaggi avventurosissimi, in solitaria, atti di presenza e persino reportage, uno anche per Repubblica, dall’Iraq. «Me l’hanno pagato 2.500 euro. Devoluti, naturalmente».
[...] Forse le nuove etichette e le battaglie che hanno accompagnato sono servite per garantire identità e diritti prima inconcepibili e che, in parte, per gli italiani ancora lo sono. Per esempio: lei è dovuta andare a Londra per consentire a Carla di adottare sua figlia Penelope.
«Sì è vero, mi sono tutelata con delle leggi che in Italia non c’erano. In Inghilterra, con l’unione civile, ho ottenuto la stepchild adoption: in Italia come donna che ha avuto una figlia da sola ero senza tutte quelle protezioni. Poteva succedermi qualsiasi cosa e dovevo preoccuparmi del futuro della mia bambina. Io non dico che non c’è bisogno di fare delle campagne, anzi, c’è bisogno di incazzarsi. E le manifestazioni sono importanti, il problema è che sono sempre più inglobate dalla politica, di destra e di sinistra. E non ha nessun senso, perché divide e basta».
[...] Ma è vero che non è mai andata a un Pride?
«Uno, forse, mi sembra di averlo fatto in Canada, e poi un sacco di manifestazioni a Londra, perché mia figlia ha frequentato le scuole lì per quattro o cinque anni e la portavano sempre alle manifestazioni: le mettevano su un distintivo e andavano».
Al Pride?
«Anche ad altre, di solidarietà, come quella per l’incendio della Greenfeld Tower. La sua era una scuola privata, ma un po’ di campagna. Mamme single, due mamme, due papà, i cosiddetti normali. E nelle classi ci poteva essere un bambino con problemi di autismo, o con la sindrome di Down, tutti mischiati. È stata la migliore educazione: tolleranza generale».
[...] È l’anno della sua crisi psicotica, un disagio che nel film dura mesi, ma nel libro molto di più. Quel lungo e tormentatissimo periodo è anche molto creativo, però.
«È durato circa dieci anni questo stato mentale, ed è vero, è quello in cui ho scritto le canzoni più belle. Mi si erano aperti tutti i chakra, seguivo l’istinto come un animale. All’inizio era tragica, poi un po’ meglio, sempre meglio, sempre più bambina con le paure di un bambino: non bevevo caffè, non bevevo vino, solo latte, per diversi anni.
Facevo sport, così stavo bene, no? E avevo sempre paura di ricadere in quello stato. Però a un tratto mi usciva un hit: il mio manager mi diceva fai un hit, e automaticamente mi sono trovata a scrivere degli hit. Le canzoni mi arrivavano dall’alto, come se avessi avuto un’iniziazione.
E non c’erano droghe, non avevo allucinazioni, o stati alterati di coscienza, sono andata davvero in altre dimensioni come succede a uno yogi in India, oppure a chi fa una trance che lo porta in uno stato di autocoscienza. Però non ero tanto allegra in quegli anni là, sempre preoccupata, vivevo tutto come se fosse prestabilito. Poi arrivava Bello e impossibile: boom, scoppiava il chakra».
Suo padre, che aveva osteggiato la sua carriera musicale, fu molto amorevole durante quella crisi. Ma, in casa, la sua precocità sessuale e, poi, l’orientamento no gender com’erano visti?
«Quando mi piacevano i primi ragazzi, sui 14 anni, mio padre mi tagliò una minigonna e fu un affronto. Diede anche uno schiaffo a mia madre. Mi sentii defemminilizzata, io la presi male e promisi che dall’indomani avrei messo solo pantaloni. Pover’uomo, quando poi sono stata male si scusava in continuo per quel fatto. Qui ora c’è una storia bellina: tempo fa ho rivisto un’amante del mio babbo e mi ha raccontato che la minigonna l’aveva tagliata pure a lei».
Era più spaventato dalla sua vivacità sessuale o dalla sua omosessualità?
«Io non sono omosessuale».
Mi correggo: dall’eventualità che amasse anche le donne?
«La questione non si poneva ancora quando ero in famiglia. La sua preoccupazione era che rimanessi incinta. A 14 anni, andavo solo con i ragazzi e per prevenire incidenti mi spiegò tutto sul sesso con un libretto pieno di figure.
Preferiva che mi masturbassi quanto mi pareva piuttosto di correre rischi. E se incontrava un mio fidanzato non lo salutava. Uno di questi fidanzati faceva il calciatore e il babbo, che era presidente del Siena, non lo prese in squadra. Era possessivo, il mio babbo».