“IL SUO PERFEZIONISMO ERA IN FUNZIONE DELLA COMUNICAZIONE” – MASOLINO D’AMICO IN MEMORIA DI PETER BROOK: “IL SUO OBIETTIVO ERA SEMPRE STATO E SEMPRE SAREBBE RIMASTO QUELLO DI ARRIVARE AL PUBBLICO. NON, ATTENZIONE, NEL SENSO DI ESIBIRE SE STESSO O LA PROPRIA CREATIVITÀ, BENSÌ IN QUELLO DI PORTARE ALLO SPETTATORE UN TESTO NEL MIGLIORE DEI MODI: FACENDOGLIENE COMPRENDERE I SIGNIFICATI E LA SOSTANZA, E DIVERTENDOLO: TENENDOLO CONTINUAMENTE AVVINTO E INTERESSATO…”
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Masolino D' Amico per “La Stampa”
Nato da immigrati lettoni nel 1925, brillante studente (non di teatro), Peter Brook si rivelò già a vent' anni con una serie di regie di classici che sembrarono innovative in un contesto britannico dove regnava una tradizione polverosa e, con poche eccezioni, la routine; e già dieci anni dopo era famoso grazie a un allestimento dell'allora semidimenticato Tito Andronico di Shakespeare con due star come Laurence Olivier e Vivian Leigh, ammiratissimo anche a Venezia dove approdò come tappa di una tournée internazionale.
Seguirono successi in molti campi dello spettacolo, musical ed opera lirica non esclusi. Tra quelli in prosa diventati leggendari spiccano Re Lear con Paul Scofield (1962); Marat/Sade di Peter Weiss con Glenda Jackson (1964); il sublime Sogno di una notte di mezza estate (1972).
Nel '78, dopo un deludente Antonio e Cleopatra a Stratford-upon-Avon, però, Brook tagliò definitivamente i legami col teatro che si esegue nei luoghi consueti, con palcoscenico, sipario, poltrone e botteghino, e che ha certe esigenze produttive ed economiche.
Già in precedenza aveva dato vita a esperimenti audaci, come il memorabile Orghast (1972) a Persepoli, recitato in un idioma di puri suoni, scritto dal poeta Ted Hughes.
Ora, emancipandosi dalle condizioni in cui si era affermato, non voleva inaugurare un nuovo linguaggio, semplicemente, come confermato da tutta la sua lunga, luminosa carriera, mettersi in condizione di raggiungere meglio il suo obiettivo. Che era sempre stato e sempre sarebbe rimasto quello di arrivare al pubblico.
Non, attenzione, nel senso di esibire se stesso o la propria creatività, bensì in quello di portare allo spettatore un testo nel migliore dei modi: facendogliene comprendere i significati e la sostanza, e divertendolo: tenendolo continuamente avvinto e interessato.
Il suo perfezionismo era in funzione della comunicazione. E dopo avere imboccato un percorso di serietà - lavoro sugli attori, molte prove (alla lirica rinunciò per l'impossibilità di avere i cantanti a disposizione per il tempo necessario) - fece vedere quello che realmente voleva quando negli Anni Settanta ottenne a Parigi un teatro periferico in disuso, la Bouffe du Nord, e vi portò una compagnia internazionale di interpreti disposti a seguirlo ovunque.
Qui fece nuovi passi verso quella comunicazione che si diceva. Shakespeare era diventato arduo, legato a una lingua per certi versi obsoleta? Coraggiosamente, d'ora in avanti lo allestì in nuove traduzioni francesi, con tagli anche drastici, in bocca a parlanti di varie nazioni - una koinè che mirava a portare il Bardo a tutti.
Rinunciando a orpelli come scenografie e costumi, mantenne come priorità assoluta la simbiosi con lo spettatore. Le infinite prove che a questo punto poteva permettersi gli consentivano di saggiare, come teorizzò, la continua presa dello spettacolo. Se il pubblico ammesso alle prove si distraeva o, peggio, si annoiava, si correva ai ripari. E ricreò nel piccolo quella felicità, quella giocosità mai fine a se stessa, che aveva caratterizzato i suoi trionfi del passato.
Col tempo affiancò ai suoi Shakespeare o Cechov in lingua neutra e ridotti all'osso, ma tanto vivaci, anche qualche opera lirica come Carmen o Il flauto magico, suonate da tre o quattro strumenti e cantate con disarmante modestia di mezzi. Ma sul lato opposto affrontò anche la grandiosa epopea, con un pilastro della cultura mondiale come il Mahabharata (1985), il poema indiano con dèi, eroi e battaglie, tra gli interpreti anche il nostro Vittorio Mezzogiorno. Fu un kolossal lungo nove ore portato anche in America, visibile in tre serate e appassionante fino all'ultimo secondo.
In anni più vicini a noi pur continuando a visitare Shakespeare ogni tanto, realizzò, sempre con i suoi fedelissimi, piccole fiabe o aneddoti magari presi dal folklore del terzo mondo o estrosi adattamenti di testi improbabili come i libri di Oliver Sacks. Il risultato fu sempre una celebrazione della magia del teatro fatto di niente - due pezzi di legno sbattuti, un mestolo in un secchio d'acqua. Veniva spesso in Italia. Una volta, a Taormina, quando ebbe il Premio Europa 1989, qualcuno gli domandò come lavorava sulle luci. «Una cosa sola è importante - rispose -. Che i volti degli attori siano bene illuminati.»
Chiarezza, voleva; e energia. Diresse anche dei film, ma a parte il sempre inquietante Signore delle mosche (1963) dal romanzo di William Golding, furono soprattutto tentativi di dare qualche permanenza ai suoi spettacoli, che invece sono destinati a sopravvivere soltanto nella memoria di chi li ha goduti. Ma anche, e parecchio, negli spunti che hanno dato a generazioni di suoi discendenti e colleghi.