UN MARZIANI A ROMA - IL VIAGGIO AL TERMINE DEL VUOTO DI NATHALIE DU PASQUIER AL MACRO DI ROMA - OLTRE CENTO OPERE REALIZZATE DAGLI ANNI '80 FINO A OGGI TRA DIPINTI, SCULTURE, DISEGNI, TAPPETI, LIBRI E CERAMICHE - L’ARTISTA E DESIGNER FRANCESE IN HA COSTRUITO UNA STORIA E NON UNA SEMPLICE MOSTRA, SVISCERANDO PICCOLE E GRANDI MANIE, INFLUENZE E FILIAZIONI, USANDO LE MATTONELLE MUTINA CON MODI DA…
-Gianluca Marziani per Dagospia
Era il buco nero dei musei romani, la sala impossibile, il grande insoluto tra i luoghi espositivi. Finalmente, dopo vari tentativi (quasi) mai andati a segno, il MACRO di Luca Lo Pinto ha trovato la quadratura del cerchio logistico, un’occupazione di suolo e volumi che regala a Roma (ingresso gratuito per tutti) una mostra dalle calibrature cosmiche, di fatto la miglior scrittura curatoriale di questa nuova direzione del museo capitolino.
La sala in questione è quella del piano terra, di fronte al foyer nero con l’auditorium rosso, un’insensata cubatura unica che andrebbe bene per una sede italiana del PS1 o della Dia Art Foundation, di certo poco aderente ai princìpi logici della museografia italiana, più incline a sfruttare spazi parcellizzati per mostre che raramente usano l’approccio monumentale (a meno che non ti chiami Fondazione Prada, ma qui il discorso si allarga a quel “piccolo mondo antico” dei pochi mecenati italiani che scrivono la Storia).
Nathalie Du Pasquier (Bordeaux, 1957) è la protagonista del viaggio al termine del vuoto, artista con trascorsi da designer in quel di Milano, amica di Ettore Sottsass jr. con cui ha fondato il gruppo Memphis, spirito ironico sul crinale estetico tra pittura e scultura, una Philippe Petit sul filo che unisce il disegno alla forma funzionale, il colore al suo codice domestico, la sintesi alla ricerca di un metafisico mistero.
Scelta da Lo Pinto per riformulare il carattere genetico della sala, la Du Pasquier con “Campo di Marte” ha compreso i limiti dispersivi del luogo, dimostrando un senso orchestrale della dislocazione, del percorso come un atollo di isole visive. Per prima cosa ha annullato le altezze con un nero perimetrale che abbassa la visuale panoramica, concentrando le energie nel layer della linea terrestre. Poi ha creato una narrazione circolare del viaggio retrospettivo, sorta di racconto privato che scandisce il movimento con le sue bellissime didascalie scritte a mano, in sintonia col clima liquido e sensoriale dell’allestimento.
Quindi ha affrontato la sua idea di viaggio a ritroso ma non didascalico, una retrospettiva in cui le tele giovanili si mescolano nei gruppi a parete, basati su accostamenti personali che remixano il passato nel cut-up del continuo presente.
Se vi state chiedendo, a questo punto, di cosa narra l’atollo estetico dell’artista, sappiate che le sue sono tecnicamente “nature morte”, ovvero, raggruppamenti di oggetti inanimati entro perimetri chiusi, che si tratti di opere dipinte o di installazioni tra scultura e ambienti reali.
In realtà dovremmo chiamarle “vite silenti”, considerando le origini moderne del termine “natura morta”, quando nel Seicento definiva le composizioni con frutta, fiori e vaso annesso. Una specificità tematica che cambiò nel Novecento, non appena Giorgio Morandi si chiuse nell’ossessione privata per bottiglie, vasi e contenitori dalla pelle neutra, come se i suoi fossero tavoli celesti nel pianeta delle divinità silenziose. Nathalie Du Pasquier è partita da Morandi per atterrare nel metacrilato di Memphis, nei codici del contrasto cromatico, delle dissonanze decorative, della geometria calda.
La nostra artista costruisce vasi che piacciono moltissimo (Marziani e Campo di Marte sono già un segno del destino) sul mio pianeta alieno, per quella vertigine acrilica dei colori piatti, delle armonie tra forme idrauliche e meccaniche, del mistero che avvolge i suoi totem con l’aria dei giocattoli e la perfezione pasticciera dei macarons. Dipinge quadri che sono il gemello a due dimensioni del suo mondo plastico, inventando una personale Legolandia tra architettura e poesia, alchimia e diario onirico. Elabora camere metafisiche in cui pittura e scultura si fondono in una metamorfosi postindustriale, tra anfratti alla Magritte e piazze ferraresi alla de Chirico.
Disegna mattonelle (per la favolosa azienda italiana Mutina, uno dei partner del progetto) che sono piccoli capolavori in serie. Disegna tappeti che ritroviamo nelle case del bel gusto contemporaneo, ha disegnato complementi per Memphis che appartengono alle storie indimenticabili. Disegna disegni che sono prodromi filiali delle sue tele pittoriche.
Il salone SOLO/MULTI (questo il nome scelto per lo spazio in questione, destinato ad autori che si muovono tra discipline, sfuggendo ad ogni tentativo classificatorio) è un luogo di sospensione della credulità, sorta di isola greca che distilla emozioni dei sensi, che ci culla in una fruizione zigzagante come se fossimo in un mare placido, sotto un cielo a cui manca solo la luna artificiale.
Qui l’artista francese ha costruito una storia e non una semplice mostra, sviscerando piccole e grandi manie, influenze e filiazioni, usando le mattonelle Mutina con modi da cesellatrice ambientale, dotandosi di qualità scenografiche che attraversano ogni dettaglio dello spazio (quando visiterete la mostra puntate l’occhio su come ha integrato gli elementi di sicurezza a parete). Fili invisibili connettono ogni parte di questo ambizioso progetto, tessendo un’enciclopedia fantastica del paesaggio inanimato, degli oggetti gommosi che piacevano ad Alberto Savinio e Claes Oldenburg, dei riti seriali alla Allan McCollum, degli archetipi primordiali, dei complementi con cui arredare lo spazio dell’unica libertà assoluta: quella interiore.