NAPULITANATA - NIOLA: "L’AMORE E L'ONORE, LA MALAVITA E LA DOLCE VITA, LA SOCIOLOGIA E LA TECNOLOGIA. A NAPOLI TUTTO DIVENTA CANZONE - DA TAMMURRIATA NERA AL RAP, PASSANDO PER SERGIO BRUNI E ROBERTO MUROLO, RENATO CAROSONE E PINO DANIELE, IL CANTO È IL LINGUAGGIO CHE LA CITTÀ USA DA SEMPRE PER PARLARE DI SÉ STESSA, A SÉ STESSA E QUALCHE VOLTA CONTRO SÉ STESSA. LO DICE IL MUSICOLOGO E COMPOSITORE PASQUALE SCIALÒ IN UN BELLISSIMO LIBRO"
-Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica”
L’amore e l'onore, la malavita e la dolce vita, la sociologia e la tecnologia, il femminismo e il multiculturalismo. A Napoli tutto diventa canzone. Perché il canto è il grande codice di Partenope, il linguaggio che la città usa da sempre per parlare di sé stessa, a sé stessa e qualche volta contro sé stessa.
Lo dice il musicologo e compositore Pasquale Scialò in un bellissimo libro appena uscito da Neri Pozza (Storia della canzone napoletana, volume II, pagg. 380, euro 30). Il testo racconta l'evoluzione della canzone dagli anni Trenta del Novecento ai nostri giorni. Da Tammurriata nera al rap e alla trap contemporanee, passando per Sergio Bruni e Roberto Murolo, Renato Carosone e Pino Daniele, Enzo Avitabile e Rocco Hunt.
Pagina dopo pagina, l'autore smonta lo stereotipo di una canzone partenopea sempre uguale a sé stessa, prigioniera della sua oleografica classicità. E mostra come ogni innovazione sociale, ogni conquista civile, ogni vicenda politica abbia sempre trovato posto sul pentagramma locale.
Dall'invenzione del telefono a quella dell'elettricità, dalla miseria della guerra alle contraddizioni della Liberazione, dal Sessantotto al divorzio, fino all'hip hop e al parteno pop. Insomma, quel grande arcipelago che è la canzone, scrive Scialò, è una grande "area geosonora" formatasi nel tempo mescolando paesaggio e società, tradizione e trasformazione, identità e diversità. Eppure, l'origine continua a risuonare, come un leit motiv senza tempo, anche nelle forme contaminate del presente.
Come nel caso di Enzo Avitabile e della sua musica migrante, che mescola le antiche matrici canore della città con altri suoni mediterranei, insieme con il blues e il soul. È la "black tarantella", che riflette l'anima di una Napoli nera a metà. Piena di differenze e di compresenze, di armonie e di dissonanze che si riflettono nella sua identità, musicale e non solo.
Ne è un esempio un pezzo celebre come Tammurriata nera, cui Scialò dedica una penetrante analisi. Scritta nel 1944 da E. A. Mario, nel clima disperato e vitale della Liberazione, lo stesso che detta a Curzio Malaparte le pagine più allucinate de La pelle, la canzone parla dei figli della guerra, degli scugnizzi di colore nati nei vicoli. Nel corso degli anni il brano ha avuto molte interpretazioni che ogni volta ne hanno fatto scaturire un senso nuovo.
Dall'amara ironia iniziale alla lettura progressista e multietnica della Nuova Compagnia di Canto Popolare, chiaramente ispirata dallo slancio terzomondista degli anni Settanta, quando il Revival Folk scopre la rivoluzione nascosta nella tradizione. D'altra parte, è proprio il carattere ibrido, aperto e flessibile a spiegare la lunga vita della canzone napoletana che a differenza di fenomeni coevi come il lieder tedesco e la chanson francese, cristallizzati se non addirittura imbalsamati nel loro canone, ha continuamente mutato pelle restando però risolutamente sé stessa.
Colonna sonora di una città fatta della stessa materia di cui è fatto il canto, come diceva il musicista tedesco Hans Werner Henze. Un tessuto di frequenze e cadenze, di sussurri e grida, malinconie e ipocondrie, litanie e melodie, che risale al passato ma continua a riecheggiare nel futuro. Perché è sempre in presa diretta sulla vita.