IL NECROLOGIO DEI GIUSTI - PAUL MORRISSEY, SCOMPARSO IERI A 86 ANNI, ERA IL REGISTA CHE HA DIRETTO TUTTI I FILM, CORTI, LUNGHI, CAPOLAVORI O MENO DELLA FACTORY DI ANDY WARHOL DAL 1965 AL 1975 - BASTEREBBERO TITOLI COME “FLESH”, “TRASH”, “HEAT” PER CAPIRNE IL VALORE. I SUOI PERSONAGGI SONO SEMPRE SULL’ORLO DEL BARATRO, DROGATI, SPACCIATORI, PUTTANE, PAPPONI, MA MORRISSEY PRENDE LE DISTANZE DA QUEL TIPO DI MONDO, CHE GLI SEMBRA UN FREAK’S DREAM ALLA WARHOL.… - VIDEO
-Marco Giusti per Dagospia
“Non volevo fare nulla di speciale, volevo solo fare film”, sosteneva Paul Morrissey, 86 anni, il regista, ma sarebbe più giusto chiamarlo l’uomo-cinema, che dirige o gira o illumina tutti i film, corti, lunghi, capolavori o meno della Factory di Andy Warhol dal 1965 al 1975. Basterebbero titoli come “Flesh”, “Trash”, “Heat”, interpretati tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70 dal mitico Joe Dallesandro, Candy Darling, Sylvia Miles, anche se il preferito di Morrissey era “Women in Revolt”, dove un gruppo di ragazze molla i fidanzati per rincorrere il femminismo e poi diventano tutte lesbiche, per capirne il valore.
Artistico, cinematografico. Tradotti e ridoppiati in italiano sotto la direzione di Pier Paolo Pasolini, “Flesh”, “Trash” e “Heat”, portarono da noi il cinema di Warhol e Morrissey a un pubblico più vasto di quello dei film delle avanguardie e dell'underground. Termini, avanguardia e underground, che curiosamente Morrissey aveva sempre detestato. Benché si occupasse di riprendere la vita di tutti i giorni di tossici, papponi, puttane, si sentiva di fondo un moralista. Da non confondere, quindi, con i suoi personaggi.
Ma era forse un atteggiamento, anche ironico, verso il proprio lavoro e tutta la Factory. La battuta di Hollywood “ci sono più stelle che in cielo”, Morrissey la traduceva nella Factory ci sono più stelle in cielo, visto che gran parte delle sue star erano morte, che sulla terra. Nato a New York nel 1938, Morrissey è ancora ventenne quando, dopo essersi laureato alla Fordham University in letteratura inglese, con la benedizione di Jonas Mekas inizia a fare i suoi primi corti, “Mary Martin Does It” e “Dream and Day Dream”.
E’ questo secondo film che vede Andy Warhol alla ricerca di capire come fare cinema all’interno della Factory. “Andy avrebbe chiesto a chiunque di fare delle cose. Poi incontrò me e mi chiese di aiutarlo. E rimasi lì. Eravamo solo io e Andy. Non c’era nessun altro”. Dal 1965 in poi Morrissey gira come tecnico del suono, operatore e regista, ammesso che ci fosse un vero e proprio regista, tutti quelli che saranno i grandi film di Warhol, “My Hustler”, “Chelsea Girls”, “Christ”, “Bike Boys”, “Lonesome Cowboys”, per poi passare ai più noti “Flesh”, “Trash” e “Heat” e alle due follie in 3D che girerà in Italia per Carlo Ponti nel 1973 e nel 1974.
Cioè “Flesh for Frankenstein” e “Blood for Frankenstein”, con Warhol supervisore e Antonio Margheriti regista degli effetti speciali, e Udo Kier e Joe Dallesandro protagonisti. Lo troveremo poi tentare altri progetti fuori dalla protezione e dal marchio di Warhol. “The Hound of the Baskervilles” con Peter Cook e Dudley Moore, dove dimostrerà di non essere Mel Brooks, “Madam Wang’s”, “Fortu Deuce”, “Mixed Blood”, “Beethoven’s Nephew”. Fino al documentario sulla mitica Veruschka, “Veruschka Die Inszenierung (M)eines Korporis” del 2005 e “News From Nowhere” del 2010.
Ma non troverà più il successo, perlomeno artistico, che aveva avuto coi film della Factory, mentre il suo posto alla regia di “Andy Warhol’s Bad” lo prende il suo montatore, Jed Johnson. Già a quarant’anni, dopo tutto quello che aveva diretto nel segno di Warhol, Morrissey è un regista prosciugato che offre ai giornalisti un’immagine del tutto diversa da quella che si potrebbe pensare vedendo i suoi film. Lontano dal trash dal camp come da ogni pretesa artisticoide.
Se i suoi personaggi sono sempre sull’orlo del baratro, drogati, spacciatori, puttane, papponi, Morrissey stupisce alla fine degli anni ’70, lontano dall’influenza di Warhol, chi lo intervista per prendere le distanze da quel tipo di mondo, che gli sembra un freak’s dream alla Warhol. Ha una voce stridula da Paperino, e una coscienza da moralista repubblicano reaganiano. “Dal fondo del suo cinismo newyorkese”, scrive un giornalista, “Morrissey è un moralista, un repubblicano e un puritano di nuovo genere, che detesta i piccoli borghesi democratici che ritiene responsabili del degrado dei modi civili della società”.
E’ contro la droga, contro il sesso, anche contro il rock’n’roll. Trova che il comunismo sia l’incarnazione del male e sogna Clint Eastwood come presidente. “Io sono forse un moralista”, dice nelle interviste degli anni ’80, “ma non amo fare la morale a nessuno con i miei film. I film politici sono legati a una ideologia piuttosto che allo sviluppo dei personaggi”. Ovviamente non gli interessano. “Cerco solo di mettere in scena dei veri esseri umani, complessi, contraddittori e immersi in una vita orribile”.
Ma è il suo dark humour alla base delle sue massime stravaganze, cioè i due horror diretti sotto il segno di Andy Warhol in Italia per Carlo Ponti, “Flesh for Frankenstein”, ribattezzato da noi “Il mostro è in tavola… barone Frankenstein”, cosceneggiato non si capisce come da Tonino Guerra, girato in 3D (spacevision) con Udo Kier Frankenstein, Joe Dallesandro, Dalila Di Lazzaro come la Creatura di Frankenstein, sempre nuda, Monique Van Vooren, e “Blood for Dracula”, ribattezzato da noi “Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete”, con Udo Kier come Dracula in cerca di sangue di una vergine che lo possa salvare dalla morte, Joe Dallesandro come servitore, Milena Vukotich, Stefania Casini, Dominique Darel, Silvia Dionisio, come le presunte vergini, uno strepitoso Vittorio De Sica come padre delle ragazze, e perfino Roman Polanski in un cammeo.
Nelle interviste in America lo stesso Morrissey ironizza sul suo stato di servizio. “Io ho fatto il mio servizio nell’avanguardia, adesso è tempo che venga passato alla retroguardia. Voglio fare una pausa. Non posso stare sempre in prima linea sul fronte. Non siamo noi che siamo diventati meno oltraggiosi. E’ la società che ci ha raggiunto. Noi vedevamo le cose prima perché eravamo più liberi”.