"LA CAMPAGNA DI COMUNICAZIONE DEL MINISTERO DEL TURISMO CON LA VENERE DI BOTTICELLI CHE MANGIA LA PIZZA È ORRIDA. COME LE ALTRE" - ANNA COLIVA (EX DIRETTRICE DELLA GALLERIA BORGHESE) STRONCA OPEN TO MERAVIGLIA E LE ALTRE CAMPAGNE (ITALIA MUCH MORE, VERY BELLO, IT’S ITALY) - "NEMMENO CI FOSSE, AL MINISTERO DEL TURISMO, UNO SPACCIATORE DI PIZZA A TAGLIO, UN TAVOLINARO AMMANICATO, UN GELATAIO SOVVENZIONATO, UN’AGENZIA DI VIAGGI. O UN BALNEARE…"
-Lettera di Anna Coliva a Dagospia
Caro Dago,
davvero molto scalpore per la campagna di comunicazione del ministero del turismo con la Venere di Botticelli che mangia la pizza in maglietta e gondoletta. Non che non sia orrida, lo è. Ma è solo un po’più cafona e sciatta di quelle precedenti, prodotte da un ministero sempre in traversie, fondato e poi, a seconda delle convenienze o dei dispetti tra alleati-nemici, soppresso, quindi resuscitato, accorpato e scorporato di nuovo, in un turbinio causato dalla inconsapevolezza stessa del suo ruolo peraltro mai stabilito da una classe dirigente che certo non è migliorata negli anni. L’unica sua funzione apparente è stata quella di coordinare enti istituiti o de-costituiti, sempre a caro prezzo ed ora, pare, fatti risorgere, gestiti con competenze da agenzia di viaggio ma a spese del contribuente.
Open to meraviglia, come Italia much more, Very bello, It’s Italy non sono che le tragiche rappresentazioni plastiche di quello che noi – noi che non sappiamo della complessità delle scienze del turismo e non abbiamo istituti altamente specializzate per insegnarle che. invece esistono nei Paesi che ci sopravanzano di molte lunghezze per numeri e gradimento;
noi che non sappiamo che esse necessitano di convergenze complesse di specialisti in economia, imprenditoria e gestione; noi che pensiamo che gli specialisti si formino nelle scuole alberghiere (se va bene); noi che contiamo sulle masse turistiche affollate sui torpedoni per drogare con un facile pil un’economia debole; noi che neppure sappiamo che in Italia il turismo non è né un’economia né un’impresa ma solo una congerie esorbitante di interessi minimi, parassitari, regolati da una governance pubblica che interviene non per comporre gli opposti interessi ma per ribadire rendite di posizione e relative proroghe oltre i limiti stessi della legalità;
noi che ci autoproclamiamo il Paese della cultura ignorando i tragici dati OCSE sul basso livello della nostra alfabetizzazione solo perché possediamo ‘cose’(i beni culturali) attorno ai quali assiepare tavolini e dehors; noi che crediamo che i feticci monumentali gettati in pasto alle transumanze vacanziere vengano recepiti altrimenti che come gli stereotipi folkloristici che noi stessi ci vantiamo di coltivare, inconsapevoli del fatto che parlino solo di inadeguatezza, pigrizia, sciatteria.
Come se non fosse passato un giorno da quando Joyce scrisse che Roma è come un uomo che si mantiene mostrando ai viaggiatori il cadavere della nonna; noi che ripetiamo con supponenza che “invece con la cultura si mangia”, confondendo la cultura con il turismo e ignorando che la vera redditività della cultura è data solo dalla ricerca;
noi che scambiamo per redditività della cultura gli introiti dei biglietti dei musei sbandierati ad ogni festa comandata come trofei, senza chiederci perché gli altri Paesi molto più agguerriti e competitivi di noi non lo facciano mai e perché i musei molto visitati lo siano sempre di più e quelli non visitati lo siano sempre di meno; noi che pensiamo di dare a bere alle giovani generazioni, abituate alle stupefacenti realizzazioni grafiche e contenutistiche di player sud-coreani o francesi, un vecchio (formalmente parlando) cartonato biondo che mangia la pizza sul laghetto: insomma tutti noi che ignoriamo le regole sicure dei settori produttivi che utilizzano i linguaggi della comunicazione alta, noi crediamo che questo sia il turismo. Dunque dov’è lo scandalo di questa ultima campagna di comunicazione?
Da una cassetta degli attrezzi così mal ridotta possono uscire solo prodotti inutili, dannosi, persino pericolosi per la ricostruzione di un’immagine che si vorrebbe credere internazionale. Sono attrezzi che non possono far comprendere che ciò rende irresistibile un luogo è la sua vitalità contemporanea e attuale, non l’abuso dei cosiddetti “beni culturali” quali feticci del passato e non come produttori di cultura viva e appassionante per il Paese.
Incapaci di suscitare la voglia di godere della vita normale delle città, anche della loro complessità, quella vita che è la sola capace di emanare fascino con la sua normalità, dove si desidera sempre ritornare, di cui si mitizza anche la quotidianità; noi che non sappiamo che è lì che si genera e risalta il senso di meraviglia, nel saper suscitare il desiderio di essere in un luogo, provocarne la suggestione con i mezzi che si usano per rendere attraente un brand, farlo percepire addirittura come esclusivo oltre che massimamente seducente. Tutte caratteristiche contrarie a quelle che possiedono quelle che si chiamano, nell’orrido gergo delle agenzie e delle pro loco, le città d’arte.
Sembra materia effimera, richiede invece un pensiero forte, estraneo ai malinconici filmini istituzionali in cui una retorica imbarazzante cuce insieme Raffaello e la Ferrari, le cupole e le coste, la Olivetti lettera 42 e Verdi, la pizza e la Vespa. Nemmeno ci fosse, al ministero del turismo, uno spacciatore di pizza a taglio, un tavolinaro ammanicato, un gelataio sovvenzionato, un’agenzia di viaggi. O un balneare.
Anna Coliva