"NON INVESTITE SUL PATRIMONIO CULTURALE ITALIANO" - IL MINISTRO FRANCESCHINI PUNGE IL PRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA BONOMI SU ART BONUS E GIVE BACK (LA POLITICA FISCALE DI DETASSAZIONE SUGLI UTILI REINVESTITI PER LA CULTURA) - LA REPLICA DI BONOMI: “LE PAROLE DI FRANCESCHINI SONO L'ENNESIMA RIPROVA DEL SENTIMENTO ANTI-INDUSTRIALE CHE C'È NEL PAESE”
-Lara Crinò per “la Repubblica”
«Vorrei che arrivasse il momento in cui un'impresa, soprattutto una grande impresa che esporta nel mondo, si vergogni se non destina una parte dei propri utili al patrimonio culturale del Paese. Mi aspetto che la cultura del give back , quella che caratterizza le società anglosassoni, diventi più sentita in Italia».
Non passa molto tempo da questo j' accuse di Dario Franceschini: la risposta è quasi in tempo reale e innesca uno scontro tra il ministro della Cultura e il mondo dell'impresa. Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi replica a caldo: «Le parole di Franceschini sono l'ennesima riprova del sentimento anti-industriale che c'è nel Paese».
Doveva essere un appuntamento istituzionale il collegamento del ministro con gli Stati Generali della Cultura a Torino, una relazione sugli investimenti del Pnrr per il settore culturale (7 miliardi di euro) e sui numeri dell'Art bonus, la misura fiscale che dal 2014 incentiva le donazioni dei privati. Si tratta di quasi 700 milioni di euro, con 5.276 interventi e 28 mila mecenati coinvolti. Ma da subito si è capito che per il ministro non è sufficiente. Sono «episodi virtuosi», certo ma ancora troppo pochi.
L'intervento dei privati, puntualizza «deve essere motivato da una forte vocazione morale e non dall'esigenza di fare profitti». Parole che suscitano immediatamente anche le reazioni di Luigi Abete, presidente dell'Associazione imprese culturali e creative, che invita a non mettere «sotto schiaffo psicologico» le aziende ed entra nello specifico: «Chi vuol fare donazioni le fa in coscienza e senza essere sollecitato. C'è una legge dello Stato che consente a chi può e pensa che sia una buona utilizzazione di farlo. Le imprese quelle risorse le investono, creano occupazione, rischiano, a volte perdono».
Insomma, anche se Franceschini ci tiene a precisare quanto sia importante per lui la collaborazione, e a ribadire che chi dona non deve limitarsi a mettere i soldi, ma «collaborare nella gestione», la contrapposizione tra pubblico e privato, un vecchio e spinoso tema del dibattito sulla gestione del patrimonio culturale negli scorsi decenni, sembra tornare d'attualità.
Con il rischio di suonare anacronistica in un momento in cui la ripresa del settore turistico, la riapertura piena dei tesori del nostro patrimonio culturale dopo le chiusure della pandemia e le risorse del Pnrr chiedono a tutti gli operatori del settore di riflettere su nuovi modelli di gestione e sviluppo.
Che pure ci sono, e disegnano una situazione molto più sfaccettata di quella che emerge dall'inseguirsi delle dichiarazioni scatenate dall'affondo di Franceschini: il ruolo dei privati, imprese e singoli mecenati, nel mondo dell'arte e della conservazione del patrimonio italiani non può infatti essere quantificato né ridotto alla questione dell'Art bonus, né tantomeno facilmente messo a confronto con modelli esteri.
Come spiega Guido Guerzoni, professore di Museum management all'università Bocconi di Milano, l'erogazione liberale attraverso l'art bonus è infatti solo uno degli strumenti con cui i privati "agiscono" nel mondo della cultura: «Le aziende hanno diverse modalità di intervenire in campo culturale, e spesso lo fanno con progetti propri. Pensiamo all'Hangar Pirelli, alla Fondazione Prada, ai musei di Intesa San Paolo: i privati intervengono con una propria politica culturale che arricchisce l'offerta generale e talvolta con politiche di accesso e inclusività molto avanzate. Non dimentichiamo che l'art bonus è una donazione pura, che non consente di decidere insieme la destinazione delle risorse, mentre i soggetti privati oggi chiedono di co-progettare e di co-gestire il processo».
E il confronto col give back , cioè la politica fiscale di detassazione sugli utili reinvestiti per la cultura, di tipo anglosassone? Non ha senso: «La concezione di impresa-bancomat all'estero è superata da molto tempo. Inoltre il give back si esprime attraverso progetti autonomi». Insomma, è difficile fare paragoni tra modelli così diversi: «Il nostro tessuto imprenditoriale è fatto di realtà medio piccole.
In Francia, il 70 per cento delle risorse dei grandi donatori finisce nell'area di Parigi. Ma il tessuto italiano è diverso, sono imprenditori legati ai luoghi, spesso più attenti alla produzione culturale contemporanea che alla tutela del patrimonio». È una questione di scelte, non di disinteresse. Continuare a citare Della Valle e il suo benemerito contributo di 25 milioni per il recupero del Colosseo, insomma, non basta: è più utile in questa fase indagare le specificità del nostro Paese, studiare, fare ricerca. Insomma, conoscerci davvero.