L’ALTRA META’ DI PARIGI: LA RIVE DROITE – HEMINGWAY E I MOTIVI DEL DIVORZIO: “SONO UN PORCO”; PROUST BECCATO DALLA POLIZIA E SCHEDATO COME “UN 45ENNE INTENTO A BERE CON TRE PEDERASTI”, I SURREALISTI CHE PROCLAMANO: "IL SUCCESSO, PUAH! QUELLO CHE BISOGNA FARE È DIVENTARE INFREQUENTABILI" - MATTIOLI E IL LIBRO DI SCARAFFIA CHE RACCONTA GLI ANNI FOLLI E ANGOSCIATI DI PARIGI TRA LE DUE GUERRE - UN GIOVANE MALRAUX SCROCCA 20 FRANCHI A MALAPARTE
-Alberto Mattioli per Tuttolibri – la Stampa
Nei giardini del Palais Royal, il posto più bello del mondo, Jean Giraudoux portava a passeggio il suo cane Puck e, indicandogli la finestra dell’appartamento della scrittrice, non mancava di ordinargli: «Saluta madame Colette!». Benché gattolica credente e praticante, lei apprezzava: «Ci scambiavamo da cane a donna e da donna a drammaturgo delle frasi di profonda simpatia, come sulla piazza di un villaggio».
A Curzio Malaparte capitò invece una curiosa avventura sul Pont-Neuf (che in realtà è il più vecchio della città, bizzarrie parigine). Un taxi si fermò accanto a lui, ne scese un ragazzo alto ed esile, «il viso cosparso di puntini rossi», che gli chiese venti franchi, con i quali pagò il taxi e poi, intascato il resto, se ne andò serenamente, senza nemmeno salutare.
Divertito, Malaparte proseguì per l’appartamento di Daniel Halévy. Qui il padrone di casa gli presentò lo stesso giovanotto che l’aveva alleggerito dei venti franchi: «E questo è Malraux!». Il futuro ministro di De Gaulle si guardò bene dal ringraziarlo, men che meno dal restituirgli la banconota. E Malaparte: «Come potrei andare a far visita a Malraux? Avrei l’aria di andargli a richiedere i miei venti franchi». Si può scrivere un saggio, un saggio vero, profondo, coltissimo, soltanto con aneddoti come questi, fatti e fatterelli, dettagli e bizzarrie, bon mots e madeleines?
Giuseppe Scaraffia ci è riuscito con L’altra metà di Parigi - La rive droite che è, insieme, un esperimento letterario, una guida turistica, una storia del costume, delle arti e della letteratura e una scommessa. Iniziamo dalla fine: la scommessa. Scommessa è raccontare la Parigi del primo Dopoguerra, dal 1919 al ’39, quella degli anni folli, poi degli anni ciechi e infine degli anni angosciati aspettando il secondo Armageddon restando sempre sulla rive droite, senza Montmartre e Montparnasse.
Ma, spiega Scaraffia, è soltanto dalla seconda metà degli anni Trenta che diventa «de rigueur» stare a sinistra (non solo come domicilio, a ben pensarci). Anche se Prévert aveva la sua idea, al solito sbrigativa, su questi diktat topografici: «Un piede sulla riva destra, un piede su quella sinistra e il terzo nel sedere degli imbecilli».
E allora, ecco la guida turistica: arrondissement per arrondissement, le case dove vissero, crearono, amarono e talvolta morirono il vecchio Proust e il giovane Cocteau e poi Aragon e Joséphine Baker, Beauvoir e Sartre, Beckett e Céline, Drieu La Rochelle e Éluard, Francis Scott Fitzgerald e Simenon, Hemingway e Gide, Joyce e Majakovskij, Mauriac e Morand, Anna de Noailles e Victoria Ocampo, Pound e Picasso, Radiguet e Rilke, i surrealisti e i dadaisti e i futuristi, i pittori e gli scrittori (un po’ in ombra, come sempre nei libri degli intellettuali italiani, i musicisti).
C’è Orwell che lava i piatti per undici ore al giorno all’hôtel Lotti e Anaïs Nin che vive su una chiatta ormeggiata al quai des Tuileries insieme con il gatto Pepé le Moko, una cameriera detta «il topo» e molti amanti. C’è Proust beccato dalla polizia all’hôtel de Marigny e schedato come «un quarantacinquenne che vive di rendita, intento a bere con tre pederasti» e Hemingway che si risposa in Saint-Honoré d’Eylau e a chi gli chiede perché avesse divorziato dalla prima moglie risponde: «Perché sono un porco».
Ci sono i surrealisti che proclamano: «Il successo, puah! Quello che bisogna fare è diventare infrequentabili», e giù serate folli per passare dalla teoria alla pratica. C’è soprattutto e sopra tutti Parigi, questa città-mito di cui tutti siamo innamorati senza sapere esattamente perché. Si possono solo fare delle ipotesi: «L’aria di Parigi è una droga, fa male quando non la si ha più» (Elsa Triolet); «Essere parigino non vuol dire esserci nato, ma esserci rinato» (Sacha Guitry); «Parigi è una festa» (Hemingway, naturalmente).
Dopo la grande mattanza della Prima guerra mondiale, gli anni Venti furono, in fin dei conti, l’ultima età dell’innocenza europea; sul decennio successivo si ammassarono già pessimi presagi come nuvoloni (neri, appunto) in un cielo non più sereno. Ricordò Paul Morand: «Scendevamo verso il 1939 come il 1900 verso il 1914, scivolando nell’abisso come nel piacere».
Questo libro è un puzzle di innumerevoli tesserine, un aneddoto dietro l’altro, i gusti e i disgusti sessuali e gastronomici, le preferenze sull’abbigliamento, un’infinità di storielle che finiscono per comporre la storia, anzi forse perfino la Storia. Davanti agli occhi incuriositi divertiti affascinati del lettore sfila il meglio della cultura europea in una delle sue stagioni più inquiete, dunque più brillanti. Senza pedanterie, con leggerezza, come un Saint-Simon meno acido o un Proust più sintetico. E non è davvero poco.