E’ MORTO LUCA SERIANNI: IL LINGUISTA ERA IN COMA IRREVERSIBILE DOPO ESSERE STATO INVESTITO A OSTIA – LA LEZIONE DI CONGEDO: “RAGAZZI, PER ME, VOI SIETE LO STATO” (VIDEO) – “GLI SCRITTORI TUTTO SI PROPONGONO FUORCHÉ DI ESSERE MODELLO. LA TERZA PAROLA CHE COMPARE IN COME DIO COMANDA, IL ROMANZO DI NICCOLÒ AMMANITI CHE HA VINTO LO STREGA NEL 2007 È “CAZZO”- IL RAMMARICO: “NEL PRIVATO NON SONO UN CONVERSATORE BRILLANTE” - FAREI UNA BATTAGLIA PER “SÉ” STESSO, CHE BISOGNA SCRIVERE CON L’ACCENTO, A DIFFERENZA DI QUANTO..."
-LUCA SERIANNI
Da cinquantamila.it – La Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
• Roma 30 ottobre 1947. Filologo. Insegna Linguistica italiana alla Sapienza di Roma, tra i suoi libri una imponente Grammatica italiana (Utet 2006) e un’agile Prima lezione di grammatica (Laterza 2007), oltre a Italiani scritti (Il Mulino 2003), Un treno di sintomi. I medici e le parole (Garzanti 2005). Da ultimo Leggere scrivere argomentare. Prove ragionate di scrittura (Laterza 20013) e Storia dell’italiano nell’Ottocento (Il Mulino 2013). Accademico della Crusca e dei Lincei, dal 2010 vicepresidente della Società Dante Alighieri. Con Maurizio Trifone dal 2000 cura il Devoto-Oli.
• «È uno dei protagonisti del piccolo fenomeno cui si assiste da qualche tempo: un gran parlare e scrivere di lingua, di grammatica e di sintassi. Al Festivaletteratura di Mantova ha partecipato agli affollati incontri di “pronto soccorso” grammaticale organizzati dall’Accademia della Crusca».
• In un’intervista a Francesco Erbani ha sostenuto che l’italiano non va così male come si è portati a pensare, almeno l’italiano parlato, che circola ormai diffusamente. «Il congiuntivo non è affatto morto. Un mio collega, Giuseppe Antonelli, ha adottato l’espressione “temperatura percepita”. Sembra che faccia un freddo terribile e invece il termometro non va sotto lo zero. Sembra che il congiuntivo stia sparendo, ma tutte le indagini, persino quelle sulla lingua parlata, attestano, per esempio, che dopo il verbo spero il congiuntivo viene adoperato dalla quasi totalità del campione: spero che tu venga, spero che tu stia bene».
• Quanto alla lingua scritta, «non esiste più una lingua della letteratura, ed è la prima volta nella nostra storia. Gli scrittori tutto si propongono fuorché di essere modello. Ora occupano i diversi livelli della stratificazione linguistica e si riferiscono prevalentemente al parlato. La terza parola che compare in Come Dio comanda, il romanzo di Niccolò Ammaniti che ha vinto lo Strega (nel 2007 – ndr), è “cazzo”. È invece migliorata rispetto al passato la “lingua pubblica”, la lingua della burocrazia. Le istruzioni di un medicinale, poi, sono generalmente più leggibili. Una regressione si avverte, viceversa, per la lingua scritta della scuola».
• «Farei una battaglia per “sé” stesso, che bisogna scrivere con l’accento, a differenza di quanto si prescrive anche a scuola».
LUCA SERIANNI
Intervista di Antonio Gnoli A Luca Serianni su Robinson dell'11 giugno 2022
Provo una certa ammirazione per Luca Serianni, uno dei nostri grandi italianisti. Non ci conoscevamo. Leggevo le sue cose. Poi, qualche settimana fa a Parma, nell’ambito di un convegno dedicato alla lingua volgare, ho potuto seguire le sue considerazioni. Era compostamente seduto sul palco del Teatro Due affrontando con grande padronanza i temi legati alla lingua, all’importanza tutt’oggi dei dialetti e al lento mutare e impoverirsi dell’italiano. In quei momenti ho pensato che quest’uomo dal viso sofferto ed enigmatico, che mi rilanciava l’immagine inattuale di un sacerdote etrusco, fosse una delle eccezioni che aiutano il nostro paese a tenersi a galla.
Ci siamo visti a cena ed è stato davvero interessante trovare conferme alle parole e ai costrutti appena accennati e ripresi. Gli ho detto che avrei volentieri proseguito quei discorsi e che, per quanto mi riguardava, ogni cosa che diceva era come illuminata dal senso profondo del dovere; lui ha replicato che il dovere è apprezzabile se non nasce da obblighi esternima da un legame con se stessi. Qualcosa di connaturato alla persona che affiora in un certo momento della propria vita.
Che vita è stata e continua ad essere la sua?
«Potrei dirle tranquilla, ma so che vorrebbe dire poco. Da quando sono professore emerito giro molto per le scuole. Incontro insegnanti, studenti e ho l’impressione di aver accentuato gli aspetti divulgativi, spero la buona divulgazione. Dopotutto, anche un linguista, allo stesso modo di un medico, può avvertire la responsabilità di confrontarsi e coinvolgere più persone nelle cose che studia».
È curioso che le sia venuta in mente la figura del medico.
«Anche lavorare sulla lingua è una forma di cura. E poi sono stato spesso attratto dal linguaggio medico, da certe parole, dalla loro origine e trasformazione.
Ricordo un piccolo studio di tanti anni fa sui modi, piuttosto colorati, con cui il linguaggio medico ottocentesco descriveva l’urina».
Ma avrebbe voluto fare il medico?
«Era un’opzione possibile dal momento che mio padre era medico, direttore di un istituto di alimentazione e dietologia che aveva fondato. Nel tempo libero si occupava di cose letterarie e gli piaceva leggermi quello che riteneva fosse importante per la mia formazione. Ricordo Pinocchio e il periodo in cui affrontò I promessi sposi. Saltò completamente la parte iniziale che considerava troppo noiosa. A quel tempo avevo cominciato a immergermi nei romanzi di cappa e spada. Mi piaceva in particolare Rafael Sabatini, l’autore di Scaramouche. Poi vennero le letture coatte che non scatenano la fantasia ma creano disciplina».
Com’era a scuola?
«Bravo e diligente. Ma il mio percorso fu segnato da alcune interruzioni. Restai fuori dalle elementari per due anni e altri due dalle scuole medie. In quei periodi studiavo privatamente».
C’era un motivo per quelle interruzioni?
«Fu mio padre a decidere di tenermi fuori. Era divorato da un’ansia patologica. Credo che il suo assillo fosse la paura del contagio. Era il periodo in cui ci si ammalava di poliomielite. Ma le confesso che sono anni che ricordo male, per dire quanto sia importante la socialità per la nostra memoria individuale».
È singolare che un padre medico provasse simili apprensioni.
«Medico ma con una visione, probabilmente, catastrofica della vita. Morì che avevo compiuto 22 anni. Mi ero laureato e avevo cominciato a fare qualche supplenza. Una sera rincasai più tardi del previsto. Molto più tardi. E vidi quest’uomo letteralmente fuori di sé. Mi disse che stava per chiamare tutti gli ospedali dove sarei potuto finire.
Guardai il suo volto contratto dall’ansia e pensai alla sua preoccupazione irrazionale, alla dismisura con cui a volte si affrontano certi eventi».
Gli rimprovera qualcosa?
«So che era più forte di lui e che dovevo convivere con i suoi stati d’animo. Rimproveri? Mah. Forse l’avermi privato negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di sentirmi pienamente come gli altri, giocare come gli altri, fare sport. Avere un motorino. Le dico le prime cose che mi vengono in mente. Una sorta di catalogo deprimente dell’adolescenza».
Intende dire che quelle ansie ingiustificate hanno inciso sul suo carattere?
«Molto marginalmente. Alla fine mi hanno aiutato gli studi, l’amore per la lingua e tutto quello che la lingua italiana ha finito col rappresentare per me».
In fondo ha scelto la cosa più familiare al di fuori della famiglia.
«Ho scelto un percorso che sentivo mio e che probabilmente le prime letture hanno agevolato. A questo proposito, mi torna alla mente che, quando mio padre mi leggeva qualche storia, disponevo attorno a me la serie di peluche con cui di solito giocavo. Avrò avuto sei anni e, ascoltando la sua voce narrante, immaginavo di condividere qualcosa di importante con questa platea di vecchi e improbabili amici».
A proposito dei suoi studi con chi si è laureato?
«Mi laureai nel 1970 con una ricerca sul dialetto aretino tra il XIII e il XIV secolo. Il mio professore era Arrigo Castellani, uno studioso dotato di sistematicità e chiarezza. Viveva a Firenze e l’estate mi capitava di andare a trovarlo dove villeggiava, a Quercianella. La madre, sospettosa verso tutto ciò che non fosse toscano, chiedeva se io fossi fiorentino. E lui, non ti preoccupare, il dottor Serianni lo è in spirito.
Castellani era stato allievo di Bruno Migliorini. Come filologo aveva preso la cattedra di Gianfranco Contini a Friburgo. Era stato, durante la Seconda guerra mondiale, ufficiale interprete in Polonia, conosceva bene il polacco ma anche l’inglese. Possedeva una collezione di “libercoli”, così li chiamava, sulla fantascienza e le spy story. Erano il suo tributo stravagante alla letteratura di evasione. Alieno da ogni forma di potere baronale, Castellani è stato per me un vero maestro. Come lo fu Aurelio Roncaglia.
Anche lui filologo romanzo.
«Della miglior specie e grandissimo docente. Adottava lo stesso metodo che poi vidi applicare a Castellani: partiva da un testo e parola per parola lo spiegava».
Lei si laurea nel 1970, cioè nel pieno della contestazione. Come ha vissuto quegli anni?
«Se intende politicamente, le rispondo che mi accorsi che c’era stato il Sessantotto con almeno tre o quattro anni di ritardo. Fu durante le prime supplenze che percepii un clima mutato. Gli studenti mi sembravano più aperti e curiosi. Capii insomma che qualcosa irrompeva a livello sociale e politico».
Come reagì?
«Per me fu una scossa benefica. Dai dieci ai quattordici anni avevo nutrito vaghi sentimenti monarchici. Poi pian piano le mie simpatie si sono spostate verso sinistra».
Le interessa la politica?
«Mi interessa come cittadino. Credo che ciascuno debba esercitare il mestiere per il quale si sente adatto. Ogni tanto bisognerebbe rileggersi l’articolo 54 della Costituzione, la cui prima frase si chiude sul funzionario pubblico che deve svolgere il suo lavoro con disciplina e onore».
Le piace come è scritta la Costituzione?
Il mio interesse per i linguaggi settoriali mi ha portato a occuparmi anche di quello giuridico. La Costituzione è scritta molto bene. Anche i codici lo sono. In generale, a livello alto, le parole del linguaggio giuridico sono ben messe. Ma più si scende e più la lingua tende a diventare opaca, a ingarbugliarsi, fino al limite dell’incomprensibilità.
Viene in mente la proliferazione incontrollata delle leggi. La loro pressoché totale illeggibilità.
«È un processo di decadenza linguistica cui è difficile, ma non impossibile, mettere mano».
In lei l’attenzione alla lingua si risolve soprattutto nel lavoro sul lessico. Le è mai venuto il desiderio di allargare le sue ricerche alle parti più teoriche? In fondo personaggi come De Saussure, Jakobson oHjelmslev, lo stesso De Mauro, hanno riflettuto a lungo sul sistema lingua.
«La mia attenzione agli aspetti teorici è del tutto marginale. Sono stato e rimango uno storico della lingua, incline a una vocazione empirica che si avvale dei singoli sviluppi storici, più che delle strutture. Mi definirei, insomma, un antisistematico, un praticone della parola».
In che modo la parola è al centro dei suoi interessi?
«Più che analizzarla foneticamente, ho cercato di vedere la parola dal punto di vista del lessico e della possibilità di connetterla e arricchirla nei rapporti che riguardano i suoi aspetti antropologici».
Ossia non fermarsi al solo campo della lingua?
«Esattamente. La parola è spesso la chiave per aprire le porte di altri territori del sapere: dal diritto alla politica alla religione. Pensi a parole come “sacer” o “democrazia” le cui accezioni possono essere diverse da ciò che sospettiamo o riteniamo siano».
Per esempio?
«L’aggettivo “sacro” si riferisce al mondo religioso e si oppone a profano. Ma se andiamo ad analizzarla, la parola “sacer” oltre all’uso di opporsi a profano aveva un altro significato, cioè quello di “maledetto”.
Qualcosa, insomma, di esecrabile. Perché all’origine“sacer” sta ad indicare ciò che è impuro. E le conseguenze filologiche possono essere sorprendenti. Pensi all’espressione auri sacra fames. Ne parla Virgilio, poi l’espressione verrà ripresa da Dante. Ma il significato che nel XXII canto del Purgatorio verrà attribuito a “la sacra fame dell’oro” è ricondotto a una passione esecranda e maledetta tale da contagiare chi ne entra in contatto».
Lei mi sembra al riparo da certe passioni. Mi ricorda quelle figure weberiane in cui il dovere prevale su tutto il resto.
«Più che dovere in senso astratto, la chiamerei responsabilità. Cioè il rispondere a una chiamata. Fu proprio Weber a parlare di “etica della responsabilità”. Si riferiva all’azione dell’uomo politico. Ma il dover rispondere del proprio operato si può estendere al funzionario pubblico, alla figura alla quale accennavo riferendomi all’articolo 54 della Costituzione.
Ricondotto alla mia esperienza posso dire di essermi impegnato negli ultimi 15 anni nell’attività didattica.
Nell’incessante frequentazione, come ho già detto, di insegnanti e studenti, mi capita di girare molto per l’Italia, soprattutto la provincia, spesso misconosciuta ma fertile di conoscenze e curiosità. Ciò che è importante nel proprio lavoro è credere in quello che si fa».
Come è stato il rapporto con i suoi allievi?
«Positivo, in larga parte. Nel mio insegnamento ho spesso scelto di fare lezione al primo anno di corso. Bisogna cominciare a investire da subito».
Si ritiene un maestro?
«Come autodefinzione sarebbe imbarazzante. Ma forse lo sono stato per due aspetti precisi».
Quali?
«Una certa capacità di intuire quelli che hanno talento e su questi investire diventando, anche sul piano personale, un punto di riferimento. E poi lasciare queste persone libere di scegliere cosa studiare. Una volta che si è fornita la base, la guida non è imposizione di una rotta ma un confronto continuo di idee ed esperienze».
Di lei si dice che abbia molta padronanza del discorso pubblico.
«Non potrei dire lo stesso del privato. Qui non riesco ad essere un conversatore brillante. Tanto deludente in un salotto, quanto efficace in un’aula scolastica. Non so se ho perso qualcosa».
Pensa mai alle occasioni mancate?
«Direi che sono inevitabili. La vita offre possibili sviluppi. Alcuni inattesi, altri prevedibili. In ogni caso siamo noi che scegliamo dove dirigerci. Potevo intraprendere la carriera medica o quella giuridica. Alla fine ho trovato nella lingua italiana la mia identità. E le assicuro che tutto ciò che non ho scelto non l’ho mai veramente percepito come un’occasione mancata».