Dario Salvatori per Dagospia
gianni morandi amadeus sanremo
Questa terza decade di febbraio - detta anche Sanremo-un giorno in pretura - sarà quella degli strascichi e forse quella delle decisioni, sanzioni e condanne. Agcom e l’Associazione Provita& Famiglia, sembrano le più motivate.
Gli “attori” ci sono tutti ma per rendere realista “Sanremo in pretura” mancano le “spalle”: Mario Castellani, Gianni Agus, Pecorino, Capannelle, Ferrybotte. Ma arriveranno. La sensazione che prevale è che tutto ormai sia rientrato, anche perché i problemi sono altri.
La convenzione tra Comune di Sanremo e Rai scade a dicembre, quindi si dovrà decidere e in fretta. Non si può organizzare un festival in meno di un mese. Poi c’è la richiesta di un gruppo che vuole mettere le mani su Sanremo. Il Comune tergiversa, ma a Villa Ormond precisano che non si tratta di Mediaset, plausibile che la richiesta arrivi da un gruppo internazionale, leader management del settore.
Ancora decisamente strisciante l’idea di abbandonare l’Ariston, perché vetusto, camerini impraticabili (non è bastato ricostruirne dei nuovi per l’orchestra sulle ceneri della vecchia sala stampa del teatro) e soprattutto perché costruire un teatro da diecimila posti (non un palazzetto) significherebbe mettere in ballo risorse e tempistiche che durerebbero anni.
Il Festival di Sanremo ha avuto soltanto due sedi: Il Casinò (il mitico Salone delle Feste) e l’Ariston. Le prime 25 edizioni( dal 1951 al 1975) si sono svolte al Casinò, quella del 1976 fu in regime di condominio e quella del 1977 decretò il passaggio all’Ariston. Si disse che il Casinò avesse bisogno di varie ristrutturazioni che sarebbero durante a lungo. Tutte scuse. Il contratto con la famiglia Vacchino, proprietaria dell’Ariston, era già stato firmato.
Fu il commendator Aristide Vacchino ad acquistare l’appezzamento alla fine di corso Matteotti negli anni Quaranta. Quelli si che furono lavori lunghi, dal 1953 al 1963, inaugurazione il 31 maggio! Il teatro Ariston è nella toponomastica della città, un punto strategico dove si fanno selfie, visite, passerelle glamour, foto ricordo. E’ vero che gli altri undici mesi dell’anno ridiventa un cinema di provincia, ma poco conta.
Per i debuttanti il sogno di una vita è salire sul palco dell’Ariston, per i veterani la speranza è quella di varcare quell’atrio almeno per una ultima volta. Ha resistito alla politica, alle edizioni sfigate, alle contestazioni violente, alla solita “sospetta bomba”, a centinaia di stonature, ad ignobili vittorie ma grazie a tutto questo è diventato un’icona. Al pari della Chiesa Russa, che però fu una donazione.
La fronda anti Ariston dovrebbe rendersi conto che il modello da seguire non può essere il Forum di Assago, oppure una delle tante sedi Eurovision che abbiamo visto in tanti paesi nordici. Lì prevale il pedestre e l’equestre, l’editoriale conta poco. Diamo uno sguardo a quello che succede nel mondo. A Parigi resiste dal 1888 l’”Olympia”, da un’idea di Joseph Olier e Charles Ziedler, tycoon anche del “Moulin Rouge”, assediato dai turisti anche per essere in pieno Pigalle.
Dall’inizio del Novecento, l’”Olympia”, 1.800 posti, duecento meno dell’Ariston, ospitò tutte le vedette dell’epoca, da Mistinguett a Josèphine Baker, dal 1954 la direzione artistica passò nelle mani di Bruno Coquatrix. Su quella pedana sfilarono tutti i protagonisti della canzone francese: Edith Piaf, George Brassens, Gilbert Becaud, Yves Montand, Charles Aznavour, Dalida, Jacques Brel, Johnny Hallyday, Sacha Distel, Francoise Hardy. Solo nel 1964 arrivarono Beatles e Rolling Stones. Minacciato più volte di demolizione, si salvò grazie al diretto aiuto del ministro della Cultura, Jack Lang.
Il teatro è ancora lì, i francesi lo amano. Altra icona assoluta transalpina è la Salle Pleyel, che per la verità ospitava due sale, entrambe destinate alla lirica. Il merito fu di Camille Pleyel, figlio di Ignace Pleyel, celebre per l’omonima fabbrica di pianoforti, che convinse Fryderyk Chopin a dare il suo ultimo concerto, 1848, proprio nella sala. Fu nel 1927 che la Pleyel assunse la mitica facciata art decò.
Come non ricordare il Festival Jazz di Parigi del 1949, che si tenne proprio in quella sala già considerata “ammiraglia”? Era la prima volta, dopo la guerra, che si radunavano gli stati maggiori del jazz. Arrivarono in massa Sidney Bechet, Kenny Clarke (che rimasero a Parigi per il resto della loro vita), Tadd Dameron, Miles Davis (che si innamorò all’istante di Juliette Greco), Charlie Parker (quando il decano dei critici francesi Hughes Panassie, porse la stilografica a “Bird” per l’autografo, il musicista ringraziò e si mise in tasca la stilografica Parker pensando che fosse un gadget in suo onore).
Venne invitata anche una mini delegazione italiana: Armando Trovajoli, Carlo Loffredo e Gil Cuppini. Quest’ultimo, partendo da Milano, prese il treno, Trovajoli e Loffredo fecero un viaggio di 40 ore all’interno della Topolino del maestro, con tanto di “riccio” del contrabbasso che spuntava fuori. Quando Loffredo nelle quinte della Pleyel vide Gorni Kramer, non potè fare altro che passare il suo strumento nelle braccia del più celebre jazzista italiano. Infine la star locale, Django Reinhardt, già popolarissimo, che dormiva con i suoi amici gipsy in roulotte.
Tutto questo per la storia. Il pensiero vola alle dozzine di jazz club americani che sono stati salvati più volte. Alla monumentale Carnegie Hall sulla 7thAvenue, costruita nel 1891 dall’imprenditore e filantropo Andrew Carnegie dove in 130 anni si sono esibiti artisti di primissimo livello di ogni espressione. Come dimenticare il terzo tour americano di Renzo Arbore, quando riuscii a raggiungerlo in camerino prima del concerto mentre era in piena Sindrome di Stendhal: “Ma ti rendi conto? Questo era il camerino di Benny Goodman….dico Benny Goodman…io a Foggia avevo solo una tromba storta regalatemi da Tolomei, uno che suonava con me.” Questo sempre per la storia. I monoblocchi possono attendere.
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