SE CADI, RIALZATI. È LA CULTURA SKATE – VA IN LIBRERIA “TRACCE SUL MARCIAPIEDE”, IL CATALOGO DELLA MOSTRA CURATA DA DAGO ALLA TRIENNALE DI MILANO. “LO SKATE NON È UNO SPORT, NON È UN’ATTIVITÀ CHE HA UN ISTRUTTORE O UNA DIVISA, RIGUARDA TE E LA TUA PERSONALITÀ, TE E LA TUA IDENTITÀ. C’È L’OSTACOLO DA SUPERARE, VERO, MA QUESTO TRASCENDE L’ACROBAZIA, IL LATO FISICO, SEI TU DI FRONTE A QUEL MONDO CHE TI METTE DAVANTI SOLO OSTACOLI. E NON C’È NESSUN PROBLEMA SE NON CE LA FAI, TI RIALZI E CI RIPROVI. È UNA REGOLA DI VITA - CHI FA SKATE NON MANIFESTA, SI MANIFESTA”
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Azzurra Della Penna per “Chi”
Foto di Paolo Cenciarelli, tratte dal libro "Tracce sul marciapiede"
Un mese fa Elisa sfrecciava sul lungomare di Sanremo, abito bianco di Valentino addosso, skateboard ai piedi. Chissà, forse esorcizzava così il più antipatico dei podi, il secondo posto, il «primo degli ultimi», diceva Enzo Ferrari. Ma lei, a pochi centimetri da terra, volava via dal Festival. Aveva altro a cui pensare. O niente da pensare.
Del resto: «Lo skate è un’avventura solitaria», sottolinea Roberto D’Agostino, che sullo Skate, sul mistico “figlio” del surf, ha una storia (e una geografia e una filosofia) da raccontare. E comincia quando il mondo si ferma. A pochi giorni dal primo lockdown. E che non finisce oggi, ma si raccoglie oggi, dopo un percorso fatto (anche) di gradini alti, di rampe e di ringhiere, in un volume illustrato: Tracce sul marciapiede (edito da Triennale di Milano Servizi).
Domanda. Dago, lei scrive: “Il surf ha dato le regole dello skate, lo skate ha dato le regole della vita”. Che cosa significa?
Risposta. «Intanto che lo skate non è uno sport, non è un’attività che ha un istruttore o una divisa, riguarda te e la tua personalità, te e la tua identità. C’è l’ostacolo da superare, vero, ma questo trascende l’acrobazia, il lato fisico, sei tu di fronte a quel mondo che ti mette davanti solo ostacoli. E tu hai qualcosa per provare a fare quell’equilibrismo, quel gesto che ti porta a fare un’entrata nella società. Entrata che è, comunque, sempre difficile. Chi fa skate non manifesta, si manifesta, è un lavoro interiore».
D. A un’etica così profonda, corrisponde un’estetica cui la moda attinge a piene mani. Ma come si coniugano filosofia e passerella?
R. «Quell’estetica viene da sempre scippata dalle case di moda. Pensiamo al punk, anzi, punk e skate esplodono insieme negli Anni Settanta, uno in Inghilterra, l’altro in California. Entrambi narrano di sofferenza giovanile che si esprime in quel modo lì, preciso, parliamo di simboli senza simbolismi. Il primo a intuire la mutuabilità di questi stili è stato il nostro Elio Fiorucci. Poi sono arrivati gli altri e hanno copiato fino allo sfinimento».
D. Tanto che il fotografo Bill Cunningham, a un certo punto, gira l’obbiettivo verso gli esclusi dalla sfilata: i ragazzi del mondo fuori sono più interessanti dei modelli in passerella. Così viene canonizzato lo street style.
R. «E viene risucchiato dalle varie griffe... Però, quello che ha il mondo dello skate più di altri è la capacità di fare lo slalom fra le divise: se vai a ballare ti vesti in un modo, se vai in un club in un altro, ma come vai vestito per andare a scuola fai lo skate. E dove non c’è divisa non c’è gara. Qui all’Ara Pacis ci sono dei marmi dell’architettura fascista sui quali hai la possibilità di correre a perdifiato con lo skate. Non c’è uno più bravo dell’altro, non c’è quella sorta di corsa del topo dove a un certo punto c’è uno che arriva e dice: “Ecco, io sono il primo!”».
D. Eppure lo skate a Tokyo è diventato disciplina olimpica, dunque come la mettiamo con l’oro, l’argento e il bronzo?
R. «Però, è più un’attività espressiva di chi riesce a superare quegli ostacoli in meno tempo. Non è atletica, dove ci sono i campi e gli istruttori, dove c’è una liturgia precisa. Lo skate non ha un maestro, impari dagli amici. Qui a Villa Borghese è pieno di quelli che vanno su e giù, ma non c’è la scommessa; fuori dall’adolescenza quella competizione te la mettono davanti ogni giorno. C’è un’altra etica, alternativa, è un esercizio spirituale che uno fa con una tavola con applicate quattro ruote. E non c’è nessun problema se non ce la fai, ti rialzi e ci riprovi. E poi chi cade non è bersaglio di scherno, nessuno si preoccupa e nessuno si diverte. Non è poco tra ragazzi».
D. Intanto si ha l’impressione che la mostra in Triennale sul tema sia qualcosa di iniziato e mai finito.
R. «Il problema della Triennale, di Stefano Boeri, era quello di richiamare l’attenzione sul museo, portare i giovani dentro uno spazio museale. Se tu dici: c’è una mostra di design, non è che i ragazzi si precipitano. Invece, Boeri ha detto: “Facciamo una mostra su una delle vostre esperienze”. Ha iniziato con l’installazione del coreano Koo Jeong A, che ha disegnato dentro la Triennale lo skatepark OooOoO ed è proseguita con la mostra Tracce sul marciapiede».
D. Ed è arrivato il lockdown.
R. «Sì, ma lo skate resta, esiste in maniera sotterranea, ovunque tu vada c’è, non è una moda, non è l’hula hop, è un gioco e come tale è serissimo. Non dimentichiamoci che il gioco si afferma nel Rinascimento quando il mondo si complica. Se i greci avevano inventato l’atletica e lo sport, per allenarsi alla vita, nel Cinquecento il gioco serviva a capire come funzionava il mondo. E lo skate è una delle chiavi di lettura». E poi, come si diceva al principio, ti solleva da terra. E pochi centimetri bastano quasi sempre a fare la differenza.