SI PUÒ PERDONARE CHI HA ASSASSINATO IL TUO AMORE, LA TUA VITA, IL PADRE DEI TUOI FIGLI? - A 50 ANNI DALL’OMICIDIO DEL MARITO LUIGI, GEMMA CALABRESI RACCONTA IN UN LIBRO IL DESIDERIO DI VENDETTA, LE LACRIME E I DUBBI DEGLI ALTRI: "UNA COPPIA DI AMICI DI LUIGI MI HANNO SCRITTO: CHI LA FA L'ASPETTI" - ''DEI 757 FIRMATARI DELLA LETTERA APERTA DELL'ESPRESSO NEL 1971 SOLO QUATTRO O CINQUE, IN 50 ANNI, SI SONO SCUSATI" – E SUO FIGLIO MARIO, CHE A 14 ANNI ANDAVA IN BIBLIOTECA A LEGGERE LOTTA CONTINUA? "PENSANDO AGLI INSULTI, LE VIGNETTE INFAMANTI, LE MINACCE SONO STATA MALE. MA CAPISCO CHE…”
-Silvia Bombino per “Vanity Fair”
Esterno, giorno. Gemma ha un cappotto rosso quando va all’obitorio. Un tailleur azzurro al funerale. Ha tre figli da crescere, sola. Presenzia ai processi. Piange alla fine. Riceve una medaglia. Stringe la mano alla vedova Pinelli.
Interno, notte. Un divano, un letto, il tavolo della cucina, il telefono e lo specchio del bagno ascoltano, in silenzio, le urla, le risate, le confessioni, i soprannomi, le parole mai dette di Gemma, dei suoi quattro figli - Mario, Paolo, Luigi e Uber -, del suo secondo marito Tonino e i bau di Milo, il golden retriever che oggi ha sei anni ed è il padrone di casa.
Qual è la differenza tra la scena e il retroscena, tra quello che si vede e quello che succede nelle stanze delle proprie case? Gemma Calabresi Milite, 75 anni, a 50 dall'omicidio del marito, il commissario Luigi Calabresi, traccia una linea netta con La crepa e la luce, il libro che ha scritto per raccontare la sua storia.
Che non sta tanto nelle cronache politiche e giudiziarie, ma è la propria educazione sentimentale e resilienza, e contiene delle domande che appartengono a tutti: si può perdonare chi ci ha fatto del male? Meglio fidarsi o essere prudenti? Si deve ricordare tutto o è meglio dimenticare? Quando entro in casa, Milo scodinzola, vuole giocare. A furia di carezze si accoccola accanto a noi, in salotto. Fa la guardia.
Partiamo dal divano. Quello in cui lei sprofonda il 17 maggio 1972, quando il suo parroco le dice: Luigi è morto.
«Su quel divano ho incontrato Dio. È stata una conversione. Ero una ragazza degli anni '60 che suonava la batteria e metteva la minigonna, ero cattolica per consuetudine di famiglia, non era una mia scelta.
In quel divano sono caduta con un dolore lancinante, anche fisico, alle ossa. I soprammobili sembravano guardarmi, le cose comprate insieme, tutto girava e non aveva più senso. Non so quante ore sono rimasta lì. Poi all'improvviso ho avuto una sensazione di ovattamento, di grande pace, e ho iniziato a sentirmi forte. Riesco a pensare: ce la farò. E dico al parroco: diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell'assassino. Non poteva essere farina del mio sacco».
Nonostante quella «conversione», lei confessa di aver immaginato di infiltrarsi negli ambienti dell'estrema sinistra dell'epoca e vendicarsi.
«La fede non toglie il dolore, ma lo riempie di significati. Ci sono stati anni bui, di tristezza, abbandono, pianto, e sì, sognavo di ammazzarli. Però mi ricordavo di quel divano».
Sua madre le suggerisce il necrologio, dal Vangelo: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
«A tanta violenza bisognava rispondere con parole d'amore».
Anni dopo si accorge del vero senso di quella frase.
«Nessun sacerdote me lo aveva mai spiegato, è stata un'Epifania: sulla croce non è Cristo che perdona. Chiede al Padre di farlo. È un uomo, non riesce. Scoprire che non dovevo perdonare io chi aveva ucciso Luigi mi ha liberato».
I suoi figli hanno perdonato?
«No. Hanno voltato pagina, cercano di vivere in pace. Io dico sempre: vedrete che quando avrete la mia età ce la farete».
È stata un'equilibrista, tra il desiderio di vivere ancora e quello di non offendere il passato, col dubbio che perdonare o risposarsi potesse essere un'offesa per chi non c'era più.
«Avevo 25 anni quando sono rimasta vedova, incinta del mio terzo figlio. Era normale che avrei poi avuto il desiderio di riavere una vita. Una volta Luigi me lo aveva chiesto: se restassi sola, ti risposeresti? Avevo risposto no e lui era felice. Ho pensato molto a quella promessa ma non mi sono mai sentita in colpa, poi.
Perché lo immaginavo nella gioia eterna. Infatti spesso mi arrabbiavo, quando avevo difficoltà coi ragazzi, adolescenti: certo, la fatica la faccio io, non tu, che sì sei stato ucciso, però ora sei in pace, aiutami! Sono convinta che sia stato Gigi a farmi incontrare un nuovo amore, Tonino, il mio secondo marito».
Lo chiamava Gigi: racconta che lui faceva una crostata buonissima e la decorava con «Ge» e «G i». L'ha mai rifatta?
«La crostata no, mai più. Era sua. Ho cucinato molto, però. Come gli involtini che piacevano al papà».
Ha cresciuto i figli nel segno della fiducia e dell'accoglienza.
«Rabbia e odio ti imprigionano. E poi Gigi era uno molto spiritoso, alla Alberto Sordi, prima dell'ultimo periodo. Lo stesso divertimento che oggi ritrovo nei miei figli».
Come quando la prendono in giro perché non toglie la medaglia d'oro al valor civile alla memoria di suo marito che le consegna il presidente Ciampi...
«Non perché mi servisse per sapere chi fosse Luigi Calabresi, ma era importante il fatto che lo Stato, dopo 32 anni, finalmente riconoscesse che un suo servitore era una persona di valore... L'ho tenuta tutto il giorno, i miei figli ridevano e mi dicevano che sembravo un ufficiale dell’Armata Rossa».
Non si sono arrabbiati quando ha buttato via lettere e articoli di giornale che riguardavano Luigi?
«Ho tenuto le più belle, quelle le lascerò a loro».
C'è qualcosa che i suoi figli scopriranno col libro?
«Della lettera più cattiva che ho ricevuto. Una coppia di amici di Luigi mi avevano scritto parole di cordoglio, ma sul retro del foglio si leggeva: chi la fa l'aspetti. L'ho distrutta subito. E anche per il timore, pensi che stupida, che se l'avessero letta i miei magari il dubbio sarebbe venuto anche a loro».
E molto umano.
«Vero? Ho convissuto spesso con il dubbio degli altri, su Luigi... Ma, al famoso tavolo della cucina, avevo deciso: lo riabiliteremo con il nostro comportamento e il nostro amore».
Tutte le volte che, in questi anni, qualcuno cerca, di nuovo, di «infangare» Luigi, lei come si sente?
«Se qualcuno tira fuori il dubbio, sto male. Il perdono non mi toglie il dolore o il desiderio di giustizia».
Dei 757 firmatari della lettera aperta dell'Espresso nel 1971, quanti sono venuti da lei a scusarsi?
«Quattro o cinque, in cinquant'anni ».
Rimasta sola, si è resa conto dell'odio riservato a suo marito dopo la morte di Pinelli, da cui lui l'aveva preservata. Poi ha ricevuto altre minacce?
«Solo una, poco dopo la confessione di Marino. Il telefono ha detto: "Farai la fine di Pinelli"».
Tra le «regole» che Luigi le aveva imposto, c'era quella di girarsi per controllare di non essere seguiti. Sono automatismi che le sono rimasti?
«Sì, la strada la guardo sempre. Soprattutto se c'è qualcuno fermo, senza senso».
Dopo le condanne, in aula, ha pianto. Perché?
«Non erano lacrime di gioia, né di vendetta. Pensavo ai figli di quelle persone, ero triste per loro. Prego quasi ogni giorno perché abbiano la pace nel cuore... Un tempo li chiamavo assassini».
Oggi come?
«I responsabili della morte di Luigi. Sono stata un'insegnante di religione per 31 anni, e grazie a un mio alunno che mi chiedeva perché dei morti si ricordano solo le cose belle ho capito che dei vivi non si possono ricordare solo le brutte.
Non ho diritto di appiattirli per sempre all'atto peggiore che hanno fatto. Saranno anche buoni padri, buoni mariti, buoni amici. Loro avevano disumanizzato Luigi, per annientarlo, io ho ridato ai carnefici la loro umanità, e così sono riuscita a perdonarli».
I suoi, di figli, hanno avuto un doppio trauma: prima essere rimasti orfani, poi capire perché lo erano. Che cosa ha provato quando ha scoperto che suo figlio Mario, a 14 anni, andava in biblioteca a leggere Lotta Continua?
«Pensando alla ricerca solitaria di Mario, e a quello che neanche io avevo avuto cuore di dirgli - gli insulti, le vignette infamanti, le minacce - sono stata male. Ma capisco che ricostruire la storia era necessario».
Racconta anche che, all'inizio, quando andava al cimitero, i suoi figli giocavano con i giocattoli lasciati sulle tombe dei bambini. Ha mai invidiato la normalità degli altri?
«Sì, ed era una tristezza che mi prendeva soprattutto quando, d'estate, nella casa in montagna con i miei, al venerdì arrivavano i papà dal lavoro. E allora vedevo tutti i bambini correre sullo stradone incontro ai loro padri... Lì facevo tanta fatica. I miei fratelli per fortuna erano attenti, e salutavano prima i miei figli. Erano affettuosi e pieni di progetti per il weekend».
La depressione, che l'ha colta in alcuni momenti della sua vita, l'ha curata anche ricorrendo alla psicoterapia?
«Ci sono andata in tre occasioni. Prima di sposarmi con Tonino, perché ero ancora molto triste. Ma la terapista disse subito che non avevo un profilo patologico, avevo subito un dolore grandissimo ed era normale che non andasse via.
La seconda volta ci sono andata perché prima di avere il mio quarto figlio, Uber, avevo avuto due aborti spontanei al terzo mese. Dovevo elaborare un blocco inconscio: quando era morto Gigi ero incinta di tre mesi ed era come se, tra un marito e un figlio, il mio corpo scegliesse di tenersi il primo.
L'ultima volta ci sono andata dopo l'incidente che ho avuto anni fa, cadendo e sbattendo la testa. Dopo la riabilitazione non volevo più uscire di casa, avevo paura di tutto».
Nonostante la fede, la terapia, la sua grande e bella famiglia, c'è qualcosa che è ancora «rotto» in lei?
«La ferita rimane, ho la cicatrice. Che ogni tanto fa più male, altre volte mi risparmia».
Quanto le pesa essere, praticamente da sempre, e nonostante il secondo matrimonio, «la vedova Calabresi»?
«È stata pesante perché è una storia infinita. Però più forte del peso è stata la solidarietà che ho ricevuto. Perché l'amore degli altri è stato immenso, l'amore che non sapevo, quello della maggioranza silenziosa, dei tanti che ci hanno scritto, inviato un regalo, raccontato di avere pregato per noi.
Mi fermano per strada ancora oggi. Lo sappia: gli altri sono la cosa più importante che abbiamo sulla terra. Non i familiari e gli amici intendo, proprio gli sconosciuti. Per cui non ce l'ho fatta io, ce l'abbiamo fatta noi. Il libro l'ho scritto anche per questo: volevo ringraziarli tutti».