LA VENEZIA DEI GIUSTI - “IO CAPITANO”, DI MATTEO GARRONE, È IL MIGLIORE DEI SEI FILM ITALIANI IN CONCORSO A VENEZIA ASSIEME A "ADAGIO" - L'INIZIO, CON I DUE GIOVANI CUGINI CHE SI MUOVONO PER LE STRADE DI DAKAR E PROGETTANO IL VIAGGIO, È STREPITOSO - POI, A METÀ STRADA, PERDE UN PO’ DI QUELLA FRESCHEZZA E DI QUELLA STRUTTURA NARRATIVA INIZIALE. E’ UN PECCATO... - VIDEO
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Marco Giusti per Dagospia
Sì, penso alla celebre poesia di Walt Whitman per il titolo e per la scena della nave in rotta verso l’Italia (“The port is near, the bells I hear, the people all exulting”), che forse dipinge in modo diverso il finale del film. E penso alla difficoltà non solo di ideare e progettare, adesso, un film come “Io capitano”, diretto da Matteo Garrone che lo ha scritto con Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso, Andreda Tagliaferri, e lo ha prodotto con Paolo Del Brocco per Rai Cinema, ma soprattutto di girarlo in Africa, tra Senegal, Mali, deserto del Sahara, Libia, seguendo le vere rotte di chi parte in cerca di fortuna e spesso di fortuna ne trova ben poca.
L’inizio di “Io capitano”, che ritengo il migliore dei sei film italiani in concorso a Venezia assieme a "Adagio" di Stefano Sollima, con i due giovani cugini, il Seydou di Seydou Sarr e il Moussa di Moustapha Fall, che si muovono per le strade di Dakar e progettano il viaggio è strepitoso. Garrone e il suo direttore della fotografia, Paolo Carnera (lo stesso di “Adagio” di Sollima), si inseguono nei set naturali della città, nel mercato, nelle case con una cura, un’attenzione ammirevoli. Seydou e Moussa hanno tra loro un rapporto molto fisico di complicità, fratellanza, che il senso di avventura giovanile aumenta.
Quello che Garrone sta mettendo in scena, ovviamente, è un viaggio da Dakar verso la Libia e da lì verso l’Italia, ma sappiamo da subito che non sarà un viaggio né facile né piacevole. Costruito ascoltando vere storie di viaggi, “Io capitano” ha dalla sua un tono favolistico e di scoperta del mondo che lo avvicina molto sia all’episodio dei ragazzetti armati di “Gomorra” dello stesso Garrone sia all’Africa del “Fiore delle Mille e una notte” di Pasolini con incursioni nel magico e nell’onirico.
Poi, a metà strada, dopo averci presentato Agadez e un viaggio nel deserto di grande presa spettacolare, il film perde un po’ di quella freschezza e di quella struttura narrativa iniziale mettendoci di fronte a tanti episodi, un po’ staccati tra loro, che ci arrivano in maniera forse un po’ semplicistica. Senza una vera costruzione del perché accadano certe cose ai personaggi. E’ come se Garrone avesse scelto o desiderasse una strada più diretta possibile per raccontarci il percorso di Seydou e Moussa e arrivare così prima del dovuto alla fine della storia.
E’ un peccato perché il film ha una sua forza narrativa e visiva iniziale che avremmo voluto vedere esplodere nel corso del racconto. Ma, forse, è proprio da quel tipo di narrazione da cinema picaresco che Garrone intende prendere le distanze. Non trovo, invece, che le situazioni siano stereotipate come ho sentito dire. Mi sembra sempre un film molto equilibrato che funziona meglio però nel rapporto fra i due protagonisti che non quando Seydou rimane solo, incontra un personaggio paterno, il muratore, e capisce che deve crescere.
Dopo il successo clamoroso di “Green Border” di Agniezska Holland in sala e la sua incredibile ricostruzione dei fatti al confine tra Bielorussia e Polonia, “Io capitano”, per raccontarci una storia analoga, non solo ci porta in un’altra parte del mondo, ma proprio in un altro tipo di cinema. Più artistico quello di Garrone, diciamo, e più secco e narrativo quello della Holland. Anche se tutti e due i film, in fondo, sono gli unici a portare a Venezia un tema così importante come quello della fuga verso l’Europa. Svegliate Salvini.