LA VENEZIA DEI GIUSTI – PER I FAN DI LEONARD COHEN, MA ANCHE PER QUELLI DI JEFF BUCKLEY E DI JOHN CALE, MI SEMBRA IMPERDIBILE “HALLELUJAH: LEONARD COHEN, A JOURNEY, A SONG”, STREPITOSO DOCUMENTARIO DEDICATO ALLA COMPLESSA COSTRUZIONE DI UNA CELEBRE E MISTERIOSA CANZONE CHE OLTRE A UNA GESTAZIONE DIFFICILE, SETTE ANNI PER SCRIVERLA, HA AVUTO UN PERCORSO TORTUOSO CON UN INIZIO DISASTROSO E UN FINALE AL TEMPO STESSO DRAMMATICO E IMPREVEDIBILE - VIDEO
-CLIP DA "HALLELUJAH: LEONARD COHEN, A JOURNEY, A SONG":
Marco Giusti per Dagospia
Venezia. Per i fan di Leonard Cohen, ma anche per quelli di Jeff Buckley e di John Cale, mi sembra imperdibile questo strepitoso documentario dedicato alla complessa costruzione di una celebre e misteriosa canzone che oltre a una gestazione difficile, sette anni per scriverla, ha avuto un percorso tortuoso con un inizio disastroso e un finale al tempo stesso drammatico e imprevedibile, “HallelujaH: Leonard Cohen, A Journey, A Song”, diretto da Daniel Geller e Dayna Goldfine.
Pensata da Cohen negli anni ’80 inseguendo una simbologia mistica, a metà tra la rilettura dei testi ebraici e la cultura zen, costruita in varie parti del mondo, nell’isola greca di Hydra, a Parigi con la sua musa Dominique Isserman, la canzone e il disco, "Various Positions", ideato da Cohen e dal suo geniale arrangiatore John Lessier, venne rifiutata dal nuovo boss della Columbia nel 1983.
Il disco uscì con una piccolissima etichetta nella più completa indifferenza, decretando una sorta di crisi per chi ci aveva lavorato. Ma la canzone venne miracolosamente recuperata addirittura da Bob Dylan che ne capì subito il valore.
Venne poi cambiata nei concerti dallo stesso Cohen, che da versione legata all’Antico Testamento ne fece una versione laica, piena di riferimenti sconci alla sessualità, per poi trovare in John Cale una sorta di ricostruzione dotta e quasi definitiva, che potesse unire le due versioni di Cohen, tralasciando magari le centinaia di versi appuntati minuziosamente dal cantautore.
A questo punto, a inizio anni ’90, la canzone finisce un po’ casualmente nei concerti del giovane Jeff Buckley che ne fece una sorta di inno alla sessualità, e le tolse magari un po’ delle voci un po’ antiche dei pur geniali Cohen-Dylan-Cale. Con la morte del povero Buckley diventò nota in tutto il mondo, è così che l’abbiamo sentita un po’ tutti credo, quando venne ancora una volta ricostruita, stretta a due minuti, privata delle parti sconce e inserite nell’irriverente cartone animato “Shrek”.
Cantata nel film da Cale ma nel disco, stravenduto in tutto il mondo dal ventenne Rufus Wainwright. Il terzo passaggio, ancora più stravagante, fu il rilancio della canzone grazie alla finale di X Factor inglese nel 2008 con la versione di Alexandra Burke.
Diciamo che la storia della canzone e il suo percorso sono la parte più incredibile del documentario, anche se è notevolissima anche la ricostruzione della carriera di Leonard Cohen, i suoi studi mistici e i suoi rapporti con giornalisti, arrangiatori e colleghi.
Imperdibile anche per la mole di materiale davvero mai visto di riprese di concerti, interviste d’epoca, nastri recuperati, demo, e quintali di appunti che Cohen teneva, lavorando alle sue canzoni tutti i giorni. Ma Bob Dylan sosteneva di aver scritto delle canzoni memorabili in 15 minuti in taxi.