IL BLOCCO DEL FRENO, SULLE CABINE DELLA FUNIVIA MOTTARONE, POTREBBE ESSERE AVVENUTO ANCHE IN PASSATO - CON L’IMPIANTO CHE NECESSITAVA DI MANUTENZIONE E SI BLOCCAVA SPESSO, IL MODO PIU’ RAPIDO ED ECONOMICO DI FARLO FUNZIONARE ERA DISATTIVARE IL FRENO - UN TRATTO DI FUNE TRAENTE SFUGGE ALLE VERIFICHE MAGNETOSCOPICHE E PER QUESTO VA RIFATTO OGNI CINQUE ANNI. LÌ NON SI RIESCE A CAPIRE LO STATO DI SALUTE DELLA STRUTTURA: È LÌ CHE IL METALLO POTREBBE ESSERSI DETERIORATO…
-Ivan Fossati per “la Stampa”
Il dubbio che si è insinuato nelle ultime ore tra gli investigatori è atroce. Il freno bloccato, sulle cabine del Mottarone, potrebbe non essere stata un'abitudine solo dell'ultimo mese. Se la Procura con le prime ammissioni ha già ricostruito che così avveniva dal 26 aprile, si scaverà per chiarire un altro sospetto: che fosse già accaduto in precedenza, negli anni, quando anomalie al sistema di emergenza rischiavano di bloccare troppo a lungo l'impianto.
Disattivare il freno era la soluzione più semplice e veloce. E meno costosa. L'ipotesi si è fatta strada alla vigilia del primo sopralluogo, ieri pomeriggio, dell'esperto nominato dalla Procura di Verbania. Il docente del Politecnico di Torino Giorgio Chiandussi non ha voluto perdere tempo: subito sul luogo della tragedia, poi alla stazione intermedia della funivia, quindi al Mottarone, di nuovo giù negli uffici della società e ancora a vedere quella carcassa di lamiera rimasta tra le piante.
Ha lavorato finché c'è stata luce Chiandussi, intorno a lui solo carabinieri, soccorso alpino e protezione civile. E da lui questa mattina la procuratrice Olimpia Bossi si aspetta le prime analisi per impostare ciò che chiederà domani mattina ai tre indagati durante l'interrogatorio di garanzia nel carcere di Pallanza, condotto dal gip Donatella Banci Buonamici.
L'udienza è fissata alle 9. In carcere e non in tribunale, che dista un chilometro, per contenere una pressione mediatica che è ancora elevatissima. Chiandussi deve rispettare il segreto investigativo e ieri le uniche parole che ha detto sono state «sentite il magistrato». Ma il suo meticoloso lavoro ha già dato frutti. E si è concentrato vicino alla «testa fusa», che sulle funivie si trova esattamente sopra la testa dei passeggeri. È un tratto di trenta, cinquanta centimetri: si tratta del segmento più vicino al braccio che sovrastando la cabina si aggancia alla fune portante.
Lì la traente, la fune che domenica rompendosi ha generato la tragedia sul Mottarone, è ancorata alla vettura con un sistema a coni rovesciati. Il cono della fune si ottiene fondendo i fili di metallo con una lega molto resistente: diventa un tutt' uno, inserito in un alloggiamento altrettanto forte dove si esercita la forza di traino.
Che ceda il cono, secondo gli esperti, è praticamente impossibile, che abbia problemi il primo tratto di fune appena oltre il blocco prodotto con la fusione è più comprensibile perché è proprio quel pezzo che sfugge alle verifiche magnetoscopiche, e che per questo va rifatto ogni cinque anni. Lì non si riesce a capire la salute dei trefoli perché è uno spazio stretto dove non entra il magnetoscopio. Ed è lì che il metallo avrebbe potuto iniziare a deteriorarsi.
L'incidente, domenica alle 12,02, è avvenuto quando la cabina era ormai in stazione, aveva già rallentato e si era portata in posizione orizzontale. Poi un sobbalzo e la corsa all'indietro in caduta libera sino a raggiungere una «folle velocità» come scrive la procuratrice Olimpia Bossi nell'atto di fermo di indiziato che ha portato dietro le sbarre Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini. Sono nel carcere di Pallanza e stanno meditando. Chi prega, il capo degli operatori Tadini, chi dice di pensare a come risarcire le vittime, il titolare della società Nerini, e chi si professa totalmente estraneo, il direttore di esercizio Enrico Perocchio. Gli inquirenti hanno parlato di persone che per fare soldi agivano in spregio alle norme di sicurezza, che in Italia per gli impianti a fune sono severissime. L'assurdo è che pur sapendo di aver disabilitato il freno, loro stessi viaggiavano su quelle cabine. E talvolta anche i loro figli.