CHI DICE DONNA SI FA UN DANNO – LA FAIDA TRA LESBICHE AL “EUROCENTRALASIAN LESBIAN COMMUNITY CONFERENCE” DI BUDAPEST DOVE L'ATTIVISTA FAIKA EL NAGASHI È STATA RIMBALZATA PER AVER DICHIARATO DI NON VOLERE RINUNCIARE ALLA CATEGORIA DELLE DONNE. UN OLTRAGGIO PER I TALEBANI DELL’INCLUSIONE CHE ALTRO NON CONTINUANO A FARE CHE ESCLUDERE CHI NON LA PENSA COME LORO...

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Francesco Borgonovo per “la Verità”

 

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Lo scorso fine settimana si è tenuto uno degli eventi più rilevanti per gli attivisti e i teorici dell'universo Lgbt, la Eurocentralasian lesbian community conference. Una grande kermesse, con invitate e invitati da tutto il mondo e il finanziamento dell'Unione Europea. Lo slogan di questa edizione, la terza, era «resistenza lesbica», con tanto di bandiera ucraina sui volantini promozionali. La splendida rassegna si è svolta - pensate un po' - in quel di Budapest, in Ungheria. A quanto pare, dunque, nella terra di Viktor Orbán non si spara a vista agli omosessuali, come qualcuno vorrebbe far credere. Non risulta, infatti, che alla conferenza ci siano stati morti e feriti. Anzi, come hanno scritto gli organizzatori della rassegna, la città magiara è sede di uno dei più longevi gruppi di attivismo lesbico d'Europa, Labrisz, fondato nel 1999.

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La notizia però è un'altra.

Alla lesbian conference, in effetti, un'epurazione c'è stata, ma non l'hanno messa in atto gli ungheresi crudeli e omofobi. No, sono stati proprio i responsabili dell'evento a impedire l'ingresso a una esponente politica. Si tratta di Faika El Nagashi, eletta al Parlamento austriaco e nota per il suo convinto attivismo a favore della causa lesbica. La signora in questione, dal 2017 in avanti, è stata tra le principali promotrici delle prime edizioni della lesbian conference, ma quest' anno le sue (presunte) colleghe hanno deciso di escluderla, come lei stessa ha scritto sui social il 28 settembre.

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A poche ore dall'inizio della manifestazione, ha raccontato la parlamentare, gli organizzatori le hanno inviato una mail in cui le spiegavano perché non fosse più la benvenuta, cancellando l'invito risalente a diverso tempo prima.

La conferenza, si leggeva nella missiva elettronica, «è uno spazio trans inclusivo», e in alcune «recenti dichiarazioni pubbliche» la El Nagashi ne aveva calpestato i «valori fondamentali».

 

Messa così, la faccenda pare un po' oscura, ma ci ha pensato la politica austriaca a fare chiarezza. «Prima dell'estate, ho rilasciato un'ampia intervista a un settimanale liberale in Austria in cui ho affermato che fosse necessario mantenere la categoria di "donna" basata sulla realtà materiale», ha dichiarato la diretta interessata alla stampa. «Nella stessa intervista ho anche chiesto la protezione delle persone trans dalla discriminazione. Ma in seguito, ho incontrato una tremenda ostilità. Presumo che questo sia ciò che è arrivato nel cda della conferenza e ciò ha causato la mia esclusione».

 

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È l'ultimo di una lunga serie di avvenimenti paradossali. Un'attivista lesbica, per altro molto combattiva e molto radicale, viene esclusa da una conferenza (che in teoria dovrebbe essere luogo di confronto fra opinioni diverse) per aver osato difendere la differenza sessuale, andando così in contrasto con i più intransigenti sostenitori dell'ideologia trans. Siamo senz' altro di fronte a uno dei più lampanti esempi di quella che due studiosi anglofoni di rilievo, Helen Pluckrose e James Lindsay, hanno definito «la nuova intolleranza». Stiamo parlando di due autori di dichiarato orientamento liberale, che appaiono tendere piuttosto a sinistra, non certo di pericolosi sovranisti o, appunto, seguaci di Orbán. Ebbene, persino loro si sono accorti della deriva liberticida che i movimenti transfemministi e Lgbtq+ hanno preso negli ultimi anni.

 

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A tale riguardo è interessante notare un altro fenomeno. La ferocia e la violenza degli attivisti trans aumenta proprio mentre le fondamenta culturali e politiche del gender si sgretolano. Un esempio radioso di questa tendenza lo fornisce un saggio appena pubblicato in Italia dal Mulino e intitolato Oltre il gender. A firmarlo è Judith Lorber, il cui nome al grande pubblico italiano risulterà probabilmente sconosciuto. Costei è una delle Grandi Madri della teoria gender assieme alla più celebre Judith Butler. La Lober, professore emerito di sociologia al Brooklyn College, nei decenni passati ha contribuito a costruire l'edificio teorico Lgbt, ma oggi è giunta a una sorprendente (per lei) conclusione: il gender non elimina le diseguaglianze.

 

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Anzi, a dire il vero la nostra eroina ci va giù ancora più pesante: «Dietro l'apparente cancellazione di un rigido binarismo di genere e delle sue norme discriminatorie», scrive, «si cela il perdurare del potere maschile e del privilegio patriarcale». Nel libro la Lorber racconta un episodio incredibile. Spiega di essere stata invitata da altri attivisti a utilizzare i pronomi «neutri» (they e them in inglese) per contribuire a cancellare le differenze di genere anche nel linguaggio. «Pur essendo da molto tempo una sostenitrice dell'eliminazione del genere», dice, «mi sono trovata a osteggiare la cancellazione della mia identità di donna, anche a costo di perpetuare lo stesso binarismo di genere che ritenevo fosse all'origine dell'oppressione delle donne. Così ho rifiutato di seguire il suggerimento.

 

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Voglio essere identificata come donna». Esplosivo: una delle principali teoriche della cancellazione della differenza oggi insiste a rimarcare proprio la tanta odiata differenza sessuale. Per quale motivo? Lorber la prende alla larga, e la comprendiamo: non se la sente di smontare tutto il castello intellettuale che ha costruito in decenni di attività. Però le sue affermazioni sono abbastanza chiare: a suo dire, esistono ancora diseguaglianze fra donne e uomini. E tali diseguaglianze non si possono sanare se la distinzione tra maschi e femmine viene eliminata. «Al momento attuale continuano a sussistere pratiche istituzionali e interazionali di diseguaglianza di genere che devono essere rese visibili e combattute.

 

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E per combattere la diseguaglianza di genere dobbiamo distinguere le "donne" dagli "uomini" come categorie giuridiche e sociali. Dobbiamo poterle mettere a confronto per rendere visibile la diseguaglianza di genere». A tratti la studiosa pattina sugli specchi, ma le va riconosciuto di aver compreso di essersi infilata in un vicolo cieco, e di aver capito che chiamando «donna» un essere umano con la barba e il pene di sicuro non si aiuta l'emancipazione femminile. «Ciò che si rischierebbe di perdere è la valorizzazione delle donne, la loro storia, le loro conquiste e le loro ricche e variegate culture per produrre, tramandare e rendere visibili le quali le femministe si battono strenuamente da 50 anni».

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Ecco l'amara verità: la psicosi gender non ha garantito più libertà, ma solo più intolleranza e più discriminazioni. Peggio: le derive trans non fanno altro che cancellare la specificità femminile. Se ne sono accorte le attiviste lesbiche, e se ne sono accorte pure tante femministe, madrine del gender comprese. Qualcuno, forse, dovrebbe riferirlo alle giovani assatanate che in Italia vanno in piazza «per i diritti» e contro la destra: sono appena arrivate e già sono fuori dal tempo.

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