LA DEMOCRAZIA NON SI ESPORTA - TRA UN MESE I TALEBANI POTREBBERO ENTRARE A KABUL, RIPORTANDO L'OROLOGIO A VENT'ANNI FA QUANDO GLI AMERICANI ENTRARONO IN AFGHANISTAN DOPO L'ATTENTATO ALLE TORRI GEMELLI DELL'11 SETTEMBRE 2001 - E CON IL RIPIEGAMENTO DELLE TRUPPE NATO, INIZIANO LE CRUDELI RITORSIONI CONTRO CHI HA AIUTATO GLI OCCIDENTALI - IL CONFLITTO E' COSTATO MILIARDI DI EURO E CENTINAIA DI MIGLIAIA DI VITE...
-1 - L'ESERCITO AFGHANO IN ROTTA IL FALLIMENTO DELLA NATO CHE IMBARAZZA LA CASA BIANCA
Marco Ventura per “il Messaggero”
Qualche raffica sporadica attorno ai palazzi del governo, poi il silenzio. L'esercito governativo in rotta. Cade in questo modo Herat, la terza città dell'Afghanistan, dove gli italiani fino a poche settimane fa garantivano la presenza della Nato.
In un mese i talebani potrebbero entrare a Kabul ed entro l'11 Settembre, esattamente vent' anni dopo l'attacco alle Torri Gemelle, chiudere con una clamorosa vittoria la long war, la lunga guerra cominciata con l'invasione del 7 ottobre 2001, la missione Enduring Freedom di USA e alleati fino al 2006, ISAF della Nato fino al 2014, e Resolute Support dal 2015, quest' ultima già un disimpegno col passaggio a un'operazione no combat, mirata non più al combattimento ma alla ricostruzione e all'addestramento delle forze locali.
Le crudeli ritorsioni contro i civili e contro chiunque sia sospettato di collaborazione con gli occidentali - amputazioni, pubbliche esecuzioni e lapidazioni sono la diretta conseguenza del ripiegamento Nato segnato da varie tappe: la campagna elettorale del presidente Trump sul ritiro dei giovani soldati americani delle fasce povere, prima ancora la sorprendente formulazione della teoria di Obama sulla impossibilità per l'America di continuare a essere il Gendarme del Mondo, infine la conferma dem del neo-presidente Biden del ritiro, concluso alla fine di giugno, quando già i talebani partivano al contrattacco calpestando, come previsto, gli accordi di Doha sul riconoscimento del governo ufficiale afghano e la tutela dei diritti.
IL FLOP
Ed ecco riemergere, dagli Stati Uniti all'Europa, le polemiche sui costi umani ed economici di un conflitto tanto lungo quanto fallimentare e l'imbarazzo della Casa Bianca. I calcoli li ha fatti in aprile il Watson Institute della Brown University, per un totale di costi diretti e indiretti del conflitto in Afghanistan, e di riflesso nel confinante Pakistan - solo per gli Stati Uniti - di oltre 2.260 miliardi di dollari. Vanno considerati, infatti, gli altri costi finanziari e di gestione e le spese per l'assistenza medica e psicologia per i veterani di guerra.
Ben 933 i miliardi di finanziamento diretto del contingente Usa e fino a 1.000 quelli spesi dall'intera coalizione. Impressionante il prezzo in vite umane. I caduti americani sono 2.248, si aggiungono quasi 4.000 contractor e 1.144 altri militari Nato non statunitensi (quasi 500 i britannici). Poi, oltre 47mila i civili morti in Afghanistan (e 24mila in Pakistan), 136 i giornalisti e gli operatori dei media, 549 i volontari delle organizzazioni umanitarie.
Considerando anche le vittime tra le fila dell'esercito e della polizia afghani (quasi 70mila), si arriva a oltre 170mila solo in Afghanistan e 66mila in Pakistan. Sono 2.7 milioni i profughi fuggiti all'estero e 4 milioni gli sfollati interni. Un bilancio drammatico anche per l'Italia: 53 morti e 723 feriti tra i nostri militari, in oltre 50mila hanno messo piede in Afghanistan in vent' anni.
L'Osservatorio Milex sulle spese militari italiane calcola finanziamenti diretti alle missioni per quasi 7 miliardi di euro (6.77) dal novembre 2001, più 720 milioni per le forze armate e la polizia afghane e altri 925 milioni per mezzi, materiali e trasporto truppe, per un totale di 8.5 miliardi. Nel momento di massimo impegno internazionale, la coalizione aveva schierato sul campo 140mila soldati, ma gli americani si erano ridotti ormai a 2500, gli italiani a circa 800, le forze straniere nel complesso a 7mila. E vivevano dentro gli accampamenti.
Per l'Italia, di positivo c'è l'esperienza acquisita sul campo, sia in termini di combattimento che di supporto e addestramento, la fedeltà e consistenza del contributo anche numerico alla Nato (sempre fra i primi cinque contingenti) e l'influenza nei forum internazionali. Davvero poco, in confronto al dispendio umano ed economico.
2 - VOCI DALLA CITTÀ CHE ERA DIFESA DA 50 MILA SOLDATI ITALIANI «TORNIAMO INDIETRO DI 20 ANNI È FINITA, PREGATE PER NOI»
Marta Serafini per il “Corriere della Sera”
«Siamo tornati indietro al 2001. È tutto andato, i nostri sogni, le nostre speranze, tutto finito». Abdul ha 43 anni, due lauree, una in biotecnologie presa in India, l'altra in informatica, conosce cinque lingue. Ha tre figlie, la più grande il prossimo anno voleva iscriversi all'università. La linea va a singhiozzo, ogni spunta blu è un sospiro di sollievo. Hamid e la sua famiglia vivono a Herat da sempre.
«Tutta l'area è presa, stanno ancora combattendo. Hanno portato via delle persone dal quartiere ma non so dire molto di più perché siamo chiusi in casa da ieri. La mia testa non funziona, non so dove possiamo andare. Pregate per noi». La città blu. La cittadella fortificata voluta da Alessandro Magno e da poco messa in lizza per diventare patrimonio dell'Unesco e tappa sulla Via della Seta che fino al mese scorso ha attirato qualche turista temerario.
La moschea Jami Masjid dove il guardiano ti faceva entrare a vedere le maioliche anche se eri una donna non musulmana. La città alle porte dell'Iran, sulla strada per la via dell'oppio, con l'accento dari, in cui se il velo scivola sulle spalle non succede niente. Herat, la città dei sufi afghani e delle bancarelle di telefonini che affollano la zona intorno ai giardini di Taraqi Park. «Ricordati di noi». Con Hamid il saluto è davanti all'aeroporto poco meno di un mese fa.
Alle spalle, la lapide intitolata al tenente Massimo Ranzani, ucciso nel 2011 da una bomba. Uno dei 53 caduti in questa guerra che ha coinvolto anche noi. Perché Herat in Afghanistan fino a pochi giorni fa significava Italia. Luogo simbolo, Camp Arena, la base che ha visto transitare dall'inizio del 2005 almeno 50mila soldati tricolori.
Qui l'Italia - dopo aver partecipato alla messa in sicurezza della zona di Kabul - si vide affidata l'intera parte occidentale della regione di Herat. E qui comparvero i Prt, gli organismi di sostegno ai civili. Poi, dal 2015 con la missione Resolute support i compiti diventano soprattutto di addestramento. «Una presenza discreta», era il giudizio più diffuso.
Fino all'8 giugno, quando con l'ammaina bandiera alla presenza del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, Camp Arena ha iniziato ad essere letteralmente smantellata mentre i soldati si mettevano in fila per salire sui C-130 che li hanno riportati a casa. «Ciao italiani, ci mancherete», era stato il commento di tanti in città di fronte alla pizzeria Alfredo affollata dalle famiglie e dai più giovani. «E soprattutto ci mancherà il vostro ospedale», aveva scherzato Hamid. «Uno dei pochi a funzionare per davvero».
Ed è così che del tricolore a Herat è rimasta solo la bandiera disegnata vicino alla pista dell'aeroporto. Ma Italia a Herat è anche la scuola intitolata a Maria Grazia Cutuli a Kush Rod, un piccolo villaggio a 15 kilometri dalla città, dove Mario Cutuli il fratello dell'inviata del «Corriere» uccisa in Afghanistan nel 2001 ha posto la prima pietra di una scuola per i bambini e le bambine del villaggio. Una costruzione in mattoni dipinti di blu.
Un luogo di pace, dove tra i fiori e gli uccellini una coppia di conigli scorazzava libera mentre le alunne giocavano a rincorrersi nell'intervallo. Che cosa ne sarà di loro? Che cosa ne sarà di tutte le scuole dell'Afghanistan e di quelle bambine che vogliono solo studiare? Il pensiero corre a Nadia Anjuman, poetessa che a Herat è nata e ad Herat è morta a 25 anni nel 2005, in seguito alle percosse del marito.
Nadia scrisse: «A voi, ragazze isolate del secolo condottiere silenziose, sconosciute alla gente voi, sulle cui labbra è morto il sorriso, voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due, cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti se tra i ricordi vedete il sorriso ditelo: non avete più voglia di aprire le labbra, ma magari tra le nostre lacrime e urla ogni tanto facevate apparire la parola meno limpida».