DIECI ANNI SENZA COSSIGA - IL RICORDO DI PAOLO GUZZANTI: “AMAVA I COMUNISTI E PROVAVA RISENTIMENTO PER SUO CUGINO ENRICO BERLINGUER - QUANDO EBBE LA NOTIZIA DEL RITROVAMENTO DI ALDO MORO A VIA CAETANI EBBE UN ATTACCO NERVOSO, O MEGLIO UN CROLLO, UNO SHOCK CHE DI COLPO GLI FECE IMBIANCARE I CAPELLI. IL SUO VOLTO SI RIEMPÌ DI ERUZIONI PER LA VITILIGINE PSICOSOMATICA. NON ERA PAZZO: AVEVA LE IDEE CHIARISSIME. TENTARONO DI BUTTARLO FUORI DAL QUIRINALE CON UN CERTIFICATO MEDICO PSICHIATRICO CHE NE DICHIARASSE L’INABILITÀ MA…”
-Paolo Guzzanti per “il Riformista”
Un’Italia senza Cossiga è un teatro vuoto, anche se affollato. Sono dieci anni che se ne è andato e io ho avuto questo privilegio, per sua scelta, di essergli vicino e poi amico, anche se non poche vote mi ha mandato fuori dai gangheri quando gli prendevano certe sue piccole manie che derivavano dalla sardità, da una parola che non ricordo ma che vuol dire comportarsi come hidalgo, come cavalieri di punta e di taglio, cose coì.
Ma Cossiga va ricordato perché è stato il profeta in patria (pessima posizione) e perché, come dice la nota favola, aveva visto da tempo che il re era nudo anche se tutti facevano finta che fosse vestito. Quale re? Lo schema di gioco della politica ai tempi della guerra fredda, quando l’Italia faceva un bel po’ il porco comodo suo giocando con l’Est e con l’Ovest, con il Sud e con il Nord del mondo, approfittandosi della posizione di cerniera, quando era una cerniera. Con la caduta del sistema sovietico l’Italia si è ritrovata nuda come un verme e sotto i fari.
È’ stato il momento in cui il sistema italiano è crollato a domino: la Democrazia cristiana non aveva più ragione di esistere, il Partito comunista cambiava nome indirizzo e ragione sociale, i socialisti facevano la fine dei dinosauri, tutto saltava e cambiava ma tutti facevano finta di niente. Cossiga non era un esperto di spionaggio, come si dice: nella materia era un dilettante pasticcione, con una passionaccia adolescenziale per i giocattoli tecnologici.
Ma era esperto di intelligence che non vuol dire spionaggio, ma capacità di lettura di ciò che non è scritto. Aveva imparato quel mestiere lavorando con Aldo Moro, il quale era certamente un grande maestro di intelligence internazionale e di cui Cossiga era il braccio destro nel ministero degli Interni, o come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Come in un romanzo di John LeCarrè trattava la guerra fredda come un grande gioco in cui la prima regola è: ama il tuo nemico come te stesso, se vuoi carpire i suoi segreti.
Cossiga amava i comunisti e provava un certo risentimento per suo cugino Enrico Berlinguer il quale gli diceva gelidamente che con i cugini “al massimo si mangia l’agnello a Pasqua”. Il cugino Berlinguer non esitò a metterlo in stato d’accusa davanti al Palamento perché il Parlamento era il grande tempio della democrazia e anche dei sacrifici umani, non quella specie di bocciofila da bingo che è adesso, sotto la gestione dei nemici della Repubblica e della democrazia parlamentare. Ai tempi della Repubblica Italiana la politica era una religione complicatissima con riti, regole, opacità, delitti, reticenze, urla e odi ravvicinati.
Cossiga fu ministro degli interni durante il rapimento Moro che restò prigioniero sotto interrogatorio dei suoi carcerieri per quasi due mesi. Non sappiamo e non sapremo forse mai che cosa accadde realmente in quelle settimane, ma Cossiga dovette schierarsi col cosiddetto “partito della fermezza” che voleva Moro morto, piuttosto che Moro liberato dopo uno scambio. Io penso che scambi ci furono e che riguardassero questioni di altissima strategia militare perché troppi documenti scomparivano e ritornavano nelle casseforti e Moro fu ammazzato come un cane, disteso nel portabagagli di una Renault, con gli assassini che gli puntavano le pistole al cuore, solo, la barba lunga, spaventato ma in perfetta dignità.
Quando Cossiga ebbe la notizia del ritrovamento a via Caetani ebbe un attacco nervoso, o meglio un crollo, uno shock che di colpo gli fece imbiancare i capelli. Il suo volto si riempì di eruzioni per la vitiligine psicosomatica. Come se quella morte ampiamente prevista e attesa, lo avesse sorpreso. Lui e Andreotti non credo che abbiano mai detto tutto ciò che fecero e ciò che omisero.
So però che Cossiga, dopo la chiusura dell’evento che mise la parola fine al tentativo di Compromesso Storico (in cui Moro avrebbe dovuto agire da garante nei confronti degli alleati occidentali, insediato al Quirinale) andò a visitare uno per uno tutti i brigatisti rossi in galera e alla fine di questo accurato pellegrinaggio certificò che i brigatisti rossi erano in fondo dei bravi ragazzi, i “boy scout” della rivoluzione che avevano sbagliato e che si erano dissociati se non pentiti.
La questione non è stata chiusa e io voglio ricordare (con lui ne parlai molte volte) che quando guidai una rogatoria internazionale a Budapest dove la Procura generale ci aveva promesso i documenti chiusi in una valigia verde con le prove delle connessioni fra alcuni brigatisti, la Stasi tedesca, il terrorista Carlos che viveva in Ungheria e il Kgb sovietico, nessuno fiatò e tutti anzi fischiettavano guardando da un’altra parte.
Cossiga mi disse che quelle erano cose ormai andate come erano andate e non mi volle dire di più, anche se in Senato mi difese coraggiosamente quando fu decisa la mia “character assassination” che consistette nel sigillare i risultati enormi e per nulla segreti o segretati, raggiunti dalla Commissione Mitrokhin che, in origine e per scelta di Massimo D’Alema, doveva essere presieduta proprio da Francesco Cossiga.
Morì molto solo e la sua fine fu triste perché lo abbandonarono tutti. Eugenio Scalfari mi raccontò di essere stato lui a suggerire a Ciriaco De Mita di recuperare Cossiga disoccupato e depresso, quando Amintore Fanfani lasciò la presidenza del Senato per formare un ultimo governicchio estivo. Bisognava trovare un nuovo presidente del Senato e chi meglio dell’ex primo ministro, ministro degli Interni e sodale di Moro? Così lui accettò e fu eletto con numeri plebiscitari. E quando si dovette fare il Presidente della Repubblica, la scelta del suo nome fu morbida e matematica: altro plebiscito, poi il silenzio.
Dentro al Quirinale stava zitto. Che fa? Che pensa? O che dice? Non si sapeva. In realtà stava detestando e analizzando tutto il sistema di potere, in particolare quello dei magistrati e del Consiglio superiore della magistratura. Poi cominciò a togliersi i sassi dalla scarpa e fare cose che non erano nel protocollo.
Alla fine si permetteva licenze metafisiche come intervenire nella trasmissione della Latella che aveva ospite Palamara e dire al magistrato che la sua faccia non gli piaceva, che non gli piaceva il suo nome da tonno e lo insultava e provocava sfidandolo col, suo accento sardo dalle doppie: “Ah, dimenticavvo: lei se vuolle può anche querellarmi, lo sa, verro? che può querellarmi?”.
E quello, basito, diceva: grazie. Al Csm mandò i carabinieri in tenuta antisommossa e attaccò frontalmente il sistema trovandosi sotto il tiro di tutta la stampa liberal. I suoi vecchi amici Scalfari e De Benedetti erano ora i suoi nemici, benché a casa di Scalfari usasse andare a pranzo una volta alla settimana. Io, che come cronista della vicenda mi trovavo incredibilmente sotto tiro, vedevo gli amici che, al vedermi, cambiavano marciapiede. Ricordo Tullio de Mauro, con cui ero in rapporti d’amicizia che mi sibilò: “Ma che cazzo scrivi?” e mi tolse il saluto, come decine di altri.
Caddi in disgrazia come narratore scrupoloso e non cretino di quel che accadeva, mentre quasi tutti si dilettavano a insistere sulla pazzia di Cossiga, sulle sue pastiglie di liquerizia, i suoi antidepressivi al litio, le sue piccole manie. E io che spiegavo che non era pazzo: potete odiarlo, ma l’uomo ha le idee chiarissime e voi lo sapete. Tentarono di buttarlo fuori dal Quirinale con un certificato medico psichiatrico che ne dichiarasse l’inabilità fisica e riuscimmo a bloccare il tentativo.
Dico riuscimmo, perché non ero solo: tutte le teste matte, specialmente di sinistra, erano con lui anche quando non lo dicevano: al Quirinale alle sette del mattino partecipavo ad alcune prime colazioni con cappuccino e cornetto, dove trovavo Valentino Parlato, Andrea Barbato, Alessandro Curzi e a rotazione tutte le teste d’uovo della sinistra della Repubblica.
Il sistema crollò come Cossiga aveva previsto e predetto ma la Dc non ebbe la forza di cambiare, come fece Occhetto che trasformò il Pci in Pds, uscendo incredibilmente indenne dalla furia dell’operazione Mani Pulite che scatenò l’odio italiano per il Parlamento, odio che da allora si è sviluppato passando per le monetine a Craxi, i processi a Berlusconi, le campagne d’odio scatenato con il sistema che Sansonetti ha descritto molto bene come coda vivente dello stalinismo italiano: la prosa del procuratore Viscvinski che mandava a morte tutti coloro che Stalin voleva liquidare.
La furia che distrugge, il processo senza prove, quel genere di aggressione che il nazional socialismo tedesco hitleriano copiò e imitò con l’introduzione di alcuni accorgimenti come quello di mandare gli imputati davanti al giudice senza cintura dei pantaloni in modo che gli cadessero le braghe, prima della forca.
Tutto ciò Cossiga lo sapeva, l’aveva predetto, aveva sempre citato Viscvinski e conosceva i suoi polli e anche le sue volpi. Scrissi il giorno dopo la sua morte un raccontino in cui dicevo di averlo contattato nell’aldilà grazie ad uno dei suoi aggeggi spionistici. Come va dall’altra parte? Chiedevo. Sono molto dissorgannizzatti, rispondeva. Il check in è lentissimo. Non sappevvo che tutto fosse così scalcagnatto.