DIO PERDONA, 'NDRANGHETA NO - "MIO PADRE MI STA CERCANDO PER UCCIDERMI PERCHÉ SONO PENTITO" - DOMENICO AGRESTA, 33 ANNI DI PLATÌ, È IN CARCERE DA 12 ANNI PER AVER UCCISO UN UOMO A 18 ANNI: "SOLO AMMAZZANDOMI MIO PADRE AVREBBE L’ONORE DI PLATÌ, DELLA FAMIGLIA E DELLE ULTIME GENERAZIONI CHE DEVONO TRAGHETTARE LA ‘NDRANGHETA NEL FUTURO. IO SONO L’INFAME, IL TRADITORE, IL FURBO, L’OPPORTUNISTA. E INVECE SONO SOLO DIVENTATO UN UOMO. PENSO CON LA MIA TESTA, STUDIO, LEGGO: MI HA SALVATO LA SCUOLA IN CARCERE"
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Giuseppe Legato per “La Stampa”
«Ne sono sicuro: mio padre mi sta cercando per uccidermi. Solo ammazzandomi averebbe l’onore di Platì, della famiglia e delle ultime generazioni che devono traghettare la ‘ndrangheta nel futuro. Io sono l’infame, il traditore, il furbo, l’opportunista. E invece sono solo diventato un uomo. Penso con la mia testa, studio, leggo: mi ha salvato la scuola in carcere».
Eccolo qui Domenico Agresta, 33 anni, il più giovane pentito della ‘ndrangheta nel mondo, l’unico venuto fuori da quella roccaforte mafiosa che è Platì, ombelico di una organizzazione impenetrabile senza collaboratori di giustizia.
Il padre intercettato al telefono dirà: «Sto bastardazzo di merda ha voluto rovinarci. Se ha deciso di chiudere con la nostra famiglia ti giuro che lo ammazzo».
Agresta parla per la prima volta e in esclusiva a La Stampa da una struttura militare del centro Italia. Ha scontato dodici (dei 30) anni di carcere per un omicidio commesso quando aveva 18 anni. Uccise un piastrellista, diede fuoco al corpo in un’auto e andò a bere champagne.
Come si fa a convivere con l’idea di aver ucciso un uomo?
«Me lo sogno alcune notti. Vedo il suo viso un attimo prima di morire, sua mamma che piange al processo in aula. Non ho mai avuto occasione di chiedere scusa a quella donna. Lo faccio adesso, sottovoce».
Perché quell’omicidio?
«Perché nella logica mafiosa, aveva fatto uno sgarro alla mia famiglia».
Si vergogna ancora?
«Molto. Ho distrutto la vita di una famiglia e non ne avevo titolo. Ma quando entri nella ‘ndrangheta ci sono delle regole ineluttabili».
Quando ha deciso di collaborare con la giustizia?
«Ero in classe nel carcere di Saluzzo, leggevamo la Divina Commedia, le parole di Dante a Virgilio. Ho sentito una fitta allo stomaco».
Le ricorda?
«Le so a memoria. “Vedi la bestia per cu'io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi”. Per me la bestia era la ‘ndrangheta; la lupa, la brama di potere in nome della quale tutto è consentito, anche l’orrore. Non l’avevo scelta, mi era piombata addosso come una condanna già eseguita».
Sembra un’autoassoluzione…
«La gente dovrebbe sapere che non scegli dove nascere. Se vieni al mondo in una famiglia di ‘ndrangheta di Platì, la tua storia è già scritta».
Difficile pentirsi e cominciare a parlare dei propri genitori, dei cugini, degli zii?
«È un travaglio progressivo. In quei giorni scrissi una lettera pubblicata senza nome sul sito del Salone del Libro».
Cosa disse?
«Che mio padre era uno ‘ndranghetista. Davanti a tutti».
Risultato?
«I detenuti mi hanno subito isolato. Uno si avvicinò al mio orecchio e bisbigliò: “Hai sbagliato Domenico, tu appartieni a una famiglia di serie A. Non dovevi dire quelle cose”. Era un avvertimento. Ho rischiato la vita già allora. Quando avevo paura mi rifugiavo nei libri».
Cosa le hanno trasmesso i libri?
«Mi hanno fatto scoprire la bellezza».
La bellezza?
«La speranza di poter scrivere la mia storia. Fuori da quel percorso di violenza già disegnato da altri per me».
Cosa le ha tolto invece la ‘ndrangheta negli anni in cui ne ha fatto parte?
«Mi ha impedito di maturare come uomo, mi ha rubato la personalità a cui avevo diritto. Ancora peggio è andata al ragazzo che ho ucciso. Quando penso a mia mamma che dice di non avere più un figlio la mia mente va a quella donna che non ce l’ha più perché glielo ho tolto io».
Chi è suo padre oggi per lei?
«Non voglio averci a che fare. Ha ammazzato persone, venduto droga causando la morte di tanti giovani, sequestrato un ragazzo abbandonandolo tra le montagne senza medicine. E non si è mai pentito. Mi dica lei se questo è un uomo. Potrei guardarlo di nuovo negli occhi solo se collaborasse».
Al netto dei sequestri di persona vale lo stesso per lei…
«Certo. Ed è chiedendomelo in una cella che sono uscito da quel buio».
Crede di avercela fatta?
«Puoi uscirne solo se qualcosa di nuovo cresce dentro di te. A me questo dono è stato dato».
Ha avuto paura?
«Entrare nella grotta buia mi spaventava ma in me ha vinto il desiderio di vedere se là dentro ci fosse qualcosa di miracoloso».
Questo è Leonardo Da Vinci…
«L’altra lettura che mi ha ispirato. E poi “Se questo è un uomo di Primo Levi”».
E cosa c’entra con la ‘ndrangheta?
«La mafia è un lager, è orrore. Io ho iniziato a riconoscermi nel mondo che c’era fuori dal campo di concentramento. Sono stato un mafioso, ma sentivo che la mia vita sarebbe stata fuori».
Quanto è stato difficile?
«Ho patito molto, ma è stato più complicato convivere con la ‘ndrangheta che mi aveva chiuso il cervello, riempito di barzellette, di riti, di falso onore. Il maggiore Vincenzo Bertè e il procuratore Anna Maria Loreto mi hanno aiutato dimostrando di ascoltarmi con fiducia».
Alcuni avvocati sostengono che lei abbia raccontato molte cose per sentito dire.
«Ho visto e ho agito. Ho trafficato droga e sono stato condannato. Mio padre e i miei zii hanno permesso alla ‘ndrangheta di fare il salto di qualità, arrivando al Nord e traghettandola nel mondo del narcotraffico internazionale».
Che fine hanno fatto i soldi della droga?
«Sono stati un passepartout».
Per cosa?
«Per stringere rapporti con i professionisti e con la politica».
Che atteggiamento aveva la gente nei confronti dei mafiosi Agresta?
«Ci portavano sul palmo di una mano».
Ne andava fiero?
«Una volta sì, ora ho capito che era tutto figlio della paura».
Droga, rispetto, bella vita e crimine. È così che cresce un giovane boss al Nord?
«Niente di meno, semmai di più».
È vero che i figli dei capimafia studiano nei migliori collegi d’Europa?
«Tutto vero. Un mio cugino fu mandato in Svizzera nel campus in cui hanno studiato i piccoli della famiglia Bin Laden».
Un investimento?
«Sì, ma anche un messaggio al mondo. Sono come te, sono meglio di te. Mi laureo, divento manager e tu non ti accorgi più che puzzo di mafia. O fai finita di non sentire più l’odore ma solo perché ti conviene».