LA FAIDA DI CASA AGNELLI - LA MORTE DI MARELLA CARACCIOLO HA APERTO UNA NUOVA GRANDE "GUERRA DI SUCCESSIONE" TRA MARGHERITA AGNELLI E SUO FIGLIO JOHN PER METTERE LE MANI SULL'ENORME PATRIMONIO (IN GRAN PARTE ALL'ESTERO) LASCIATO DALL'AVVOCATO - LA STRANA FIRMA SULLA DONAZIONE ALLA PINACOTECA, DOCUMENTI NASCOSTI A ZURIGO, LA CONTESTATA CESSIONE DELLE QUOTE DELLA "DICEMBRE" CHE CONTROLLAVA LA FIAT, IL RUOLO DI GABETTI E GRANDE STEVENS, LE STIME IMPRECISE DI QUADRI E IMMOBILI, LA "PENSIONE" PAGATA DA MARGHERITA ALLA MADRE E LA RITORSIONE SU VILLA FRESCOT…
Gigi Moncalvo per "la Verità"
Com' era prevedibile, la morte di Marella Agnelli ha aperto una nuova grande «guerra di successione» tra Margherita Agnelli e suo figlio John per mettere le mani sull'enorme patrimonio della scomparsa, in gran parte all'estero dato che si trattava di quello lasciatole in eredità dal marito Gianni e di cui la defunta era entrata in possesso nel 2004 dopo aver «sistemato» la cose con sua figlia.
Alla morte della madre, il ragionamento della figlia era stato molto semplice. Partendo dal fatto che Marella nel corso della propria vita non aveva mai avuto beni e redditi propri, men che meno derivanti dallo scarso patrimonio della famiglia Caracciolo, e nemmeno rendite personali se non quelle «elargite» dal marito e «controllate» dai «custodi» Gabetti e Grande Stevens, come era possibile che la defunta avesse lasciato un patrimonio immenso in gran parte custodito in paradisi fiscali?
Era stata lei (e come aveva fatto?) ad accumulare nel corso del tempo una simile fortuna e a vederla moltiplicare dopo la morte del marito, oppure si trattava di una serie di donazioni fatte dal defunto prima della propria morte e avute dalla moglie fuori dal testamento e quindi in grandissima parte «sottratte» all'altra erede, cioè la propria figlia?
Per caso queste eventuali «donazioni» erano state perfezionate nel periodo prossimo alla morte dell'Avvocato, e quindi al di fuori dei limiti temporali previsti dalla legge (sei mesi prima della scomparsa) e anche in misura superiore al consentito (cioè ben oltre la quota «disponibile») e revocabili su richiesta degli eredi?
Margherita sapeva o credeva di conoscere i tempi e le circostanze in cui sua madre era entrata in possesso di quella ingente quantità di beni. Non si trattava di donazioni o trasferimenti di denaro né di cambi di intestazioni di titoli o quote azionari. No, sarebbe stato tutto molto più semplice. Gli investigatori di Margherita avevano raccolto una serie di elementi che li avevano portati a una conclusione sconcertante. Per trasferire l'intero patrimonio di Gianni Agnelli, o di gran parte di esso, ci sarebbe stato bisogno solo di una paginetta di poche righe in fondo alla quale c'era una ormai irriconoscibile firma dell'Avvocato.
Anzi di uno spezzone del suo nome e cognome. Com' era già avvenuto pochi mesi prima, settembre 2002, per la donazione dei quadri di Gianni alla Pinacoteca, alla viglia dell'inaugurazione della stessa. Gli investigatori avevano avanzato, non si sa con quale grado di attendibilità, l'ipotesi che pochi giorni prima della morte di Gianni, nel tardo pomeriggio di una domenica di gennaio del 2003 (e quindi presumibilmente il 13 o il 20 gennaio, dato che Agnelli è morto venerdì 24), cinque auto fossero salite a Villa Frescot a breve distanza temporale l'una dall'altra per l'operazione chiave per la destinazione definitiva del patrimonio Agnelli al di fuori del testamento.
Sulle rispettive vetture sarebbero arrivati due dipendenti di uno studio notarile, che dovevano fungere da testimoni, e lo stesso notaio. Dentro la villa ad attenderli ci sarebbero stati donna Marella, affiancata da Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens. Il notaio aveva già predisposto una «procura generale» di poche righe che conferiva a Marella un potere assoluto sui beni del moribondo, almeno quelli in Italia.
Al di là delle forme e delle condizioni fisiche di Gianni Agnelli (era in grado di intendere e di volere?), gli investigatori di Margherita sostenevano di aver raccolto una testimonianza che racchiudeva un particolare molto rilevante: uno dei due testimoni che avrebbero dovuto presenziare all'atto e alla firma affermava che essi non erano stati nemmeno fatti entrare nella camera di Gianni Agnelli.
Erano stati fatti attendere in una sala adiacente dato che là erano entrate solo quattro persone. Anche le due infermiere erano state fatte uscire. I due testimoni, in sostanza, non avrebbero potuto, come previsto dalla legge, presenziare alla lettura dell'atto né assistere al momento più importante, e cioè la firma da parte di Gianni Agnelli. All'uscita dalla camera - secondo la testimonianza -si sarebbero limitati a «ubbidire» apponendo la loro firma. Chissà se questa versione è vera o meno.
Questo è quanto Hurner ha raccontato a Margherita non si sa allegando quali prove e soprattutto quale testimonianza. Un dato appare certo: basta andare alla prefettura di Torino e consultare il fascicolo della Fondazione Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli. Si potrà notare come la firma di Gianni Agnelli in calce alla donazione dei suoi quadri nel settembre 2002 sia molto diversa dall'originale. L'ingente patrimonio di cui disponeva la madre negli ultimi anni, secondo la figlia, rappresentava la «cassa nera» entrata nella disponibilità della madre alla morte di Gianni Agnelli nel gennaio 2003 o nei mesi di poco precedenti la morte.
Nel corso del tempo Marella, oltre ai proventi dell'accordo di Ginevra, aveva potuto contare su alcuni asset «liberati» dalla morte del marito e di cui poteva disporre personalmente: ad esempio, il ricavato della vendita all'asta dell'appartamento di New York e di alcuni arredi di quel prezioso duplex al 770 di Park Avenue, altre rendite immobiliari legate all'alienazione di alcune proprietà a Parigi, ma ufficialmente niente di più.
D'altro canto, invece, Marella nei suoi ultimi 16 anni aveva dovuto sostenere ingenti spese di mantenimento per le proprietà in Italia, in particolare per Villar Perosa, per la villa di Saint Moritz, per il riad di Marrakesh in Marocco, per l'ex convento di Alzipratu in Corsica. Senza parlare dei costi per il personale di servizio e per l'assistenza sanitaria. E infine per l'acquisto della sua nuova residenza svizzera a Samaden. Ne deriva che - secondo la figlia - fino alla propria morte, Marella aveva potuto contare su una enorme quantità di beni racchiusi in conti esteri e beneficiare di colossali rendite derivanti da un patrimonio mai emerso.
Ciò significa, secondo Margherita, che, senza informarla, sua madre si era appropriata di ciò che apparteneva al defunto e quindi per metà anche a lei, dato che tali somme avrebbero dovuto essere divise a metà tra le due legittime eredi. Sempre secondo la figlia, Marella Caracciolo si sarebbe dunque prestata - consapevolmente o meno - alle manovre di coloro che l'hanno guidata nella lunga vertenza per l'eredità.
E, alla fine, avrebbe volutamente danneggiato l'altra legittima erede impedendole di avere conoscenza di tutte le informazioni che contribuivano a determinare l'entità globale della massa successoria. Tutto ciò sarebbe dimostrato dalle pressioni, dagli ostacoli, dalle resistenze, dalle condizioni, dalle clausole che sono state imposte a Margherita per impedirle di conoscere tutte le informazioni riguardanti il patrimonio del padre, la distribuzione degli asset nei vari conti bancari, le rendite annue, le società estere, i nomi degli amministratori delle fondazioni, delle stiftung, delle anstalt, delle finanziarie, le generalità dei beneficiari e degli intestatari.
Per arrivare a questo le sarebbero stati nascosti documenti conservati nel «family office» di Zurigo, la cassaforte personale dei segreti finanziari di Gianni Agnelli. Su ordine di chi Siegfried Maron e Ursula Schulte, i due «responsabili» della struttura finanziaria svizzera, avrebbero agito contro una delle due eredi? Tale condotta avrebbe avuto un altro fine, secondo la figlia: costringerla a privarsi delle quote della Dicembre e delle azioni dell'Accomandita, trasformando tali asset in denaro e inglobandoli nella somma finale dell'accordo transattivo, al fine di estrometterla dalla Fiat facendole credere che era conveniente liberarsi di quei pacchetti.Margherita aveva sempre nutrito il sospetto di essere stata tenuta all'oscuro di gran parte dei segreti di suo padre.
Temeva che Gabetti e Grande travalicassero il loro ruolo di «consiglieri» o di «amministratori» o di «protectors» («protettori») come era scritto in alcune delle poche carte che Margherita era riuscita a scoprire, gran parte delle quali era stata proprio la «controparte» a farle avere facendole credere che non aveva nulla da nascondere e che gliele avesse consegnate generosamente, per dimostrare buona fede, o facendo in modo che credesse di essere stata lei a scovarle.
Margherita, nel corso della trattativa, densa di aspetti a tratti paradossali, durata quasi un anno per venire a capo del patrimonio estero di suo padre, aveva messo a fuoco alcuni «sospetti» che, con il passare degli anni, a suo avviso erano stati confermati dai fatti anche vedendo su quale immenso patrimonio sua madre potesse contare. La figlia era arrivata a sospettare anche di un doppio gioco dei propri avvocati e pensava di non essere stata difesa né tutelata, cadendo ingenuamente in una serie di tranelli orditi dalla controparte, nel silenzio e nella mancanza di reazione dei propri legali, attraverso l'abile condotta di Carlo Lombardini, che, scelto da Grande Stevens e ispirato da Gabetti (che controllava anche i due «dioscuri» del family office), guidava le danze in nome e per conto di Marella.
Margherita, nel momento stesso in cui firmò quell'accordo così faticosamente raggiunto, aveva manifestato i propri sospetti. Al punto che scrisse di suo pugno in francese le sue perplessità sull'ultima pagina di quell'accordo transattivo: «J' accepte, par gain de paix, de regler definitivement la succession de mon pére conformément a cette proposition tout en précisant qu' a mes yeux certains chiffres ne sont pas confirmés a la realité». Vale a dire: «Accetto, per motivi di pace, di risolvere definitivamente la successione di mio padre in conformità a questa proposta, chiarendo che ai miei occhi alcune cifre non sono conformi alla realtà».
È una frase che servirà a Margherita per sostenere che la sua volontà era stata in qualche modo «coartata», nonostante fin da allora pensasse che le cifre indicate su quell'accordo non fossero reali. Da quel momento questo aspetto marchierà indelebilmente gli avvenimenti successivi e farà sorgere nuovi dissapori. Margherita credeva di essere stata «fregata». Aveva firmato solo «per motivi di pace», illudendosi che quel gesto rendesse possibile la fine delle ostilità. Invece ne era l'inizio. (1. Continua)
John Elkann forse pensava che sua madre si sarebbe accontentata ancora una volta dopo l'accordo tombale di Ginevra del 2004. La morte di Marella Caracciolo, infatti, avrebbe e ha determinato una serie di conseguenze notevoli e molto remunerative per la figlia dal punto di vista patrimoniale, nonostante sua madre - proprio in virtù dell'accordo «tombale» del 2004 - l'abbia esclusa dal proprio testamento.
La conseguenza più immediata riguardava il passaggio, automatico e istantaneo nella disponibilità completa di Margherita Agnelli di molti beni, quelli su cui la scomparsa aveva l'usufrutto, così come indicato nel testamento di Gianni Agnelli. Margherita, dunque, aveva visto diventare di sua piena proprietà tutto ciò su cui fino a quel momento aveva solo la nuda proprietà. Si trattava di beni immobili di grande valore, anche se di difficile valutazione commerciale.
Nel maggio 2003, nel suo memorandum sui beni in Italia di Gianni Agnelli, il commercialista di famiglia Gianluca Ferrero (detto «Il Contabile») aveva stimato «in via di larga approssimazione» il valore di questi immobili in 45 milioni di euro. Si tratta, prima di tutto, della proprietà di Villar Perosa, il simbolo della dinastia, con tutti gli arredi. Poi Villa Frescot in collina a Torino, che ha rappresentato per anni la residenza di Gianni Agnelli e in cui fino a qualche tempo fa hanno abitato John Elkann e la sua famiglia (con l'autorizzazione dell'usufruttuaria, cioè la nonna).
E poi Villa Sole e Villa Bona, le due residenze poco lontane da Frescot, la prima delle quali era la casa in cui il padre aveva concesso di vivere, senza mai intestargliela, al figlio Edoardo. Nello stesso perimetro c'è anche Villa Bona, una sorta di seconda residenza. Il quinto immobile in Italia è il grande appartamento che si trova a Roma, all'ultimo piano di Palazzo Carandini (erroneamente definito Palazzo Agnelli) proprio di fronte al Quirinale. Da mesi Margherita sta cercando un compratore poiché il prezzo richiesto è ritenuto «esagerato»: 20 milioni. Il commercialista Ferrero nel 2003 aveva precisato che due degli immobili in questione (Villar Perosa e Villa Frescot) «sono di particolare pregio, anche storico, ma probabilmente di difficile commerciabilità».
E aveva aggiunto che «il valore indicato non è da intendersi come stima di mercato [] ma come una valutazione indicativa al solo fine di determinare un ordine di grandezza del valore dell'intero patrimonio caduto in successione». Anche se due anni prima l'imposta sulle eredità era stata abolita dal governo Berlusconi, il commercialista aveva tenuto più basso possibile il valore complessivo. Al momento della morte di sua madre, il 23 febbraio 2019, Margherita aveva incamerato immobili il cui valore può essere certamente stimato in più di 300 milioni di euro.
Non è tutto. Margherita era divenuta piena proprietaria anche della preziosa collezione di 115 quadri, lasciati da Gianni in usufrutto alla vedova, il cui elenco dettagliato rappresenta la «parte segreta» dell'accordo transattivo del febbraio 2004. Tra queste opere d'arte ci sono tre Picasso, sei Paul Klee, un Francisco Goya, quattro Gustav Klimt, cinque Egon Schiele. A Margherita erano già stati consegnati, in virtù dell'accordo di Ginevra, altri 114 quadri (più 41 rimasti in deposito a Villa Frescot). Di questa collezione facevano parte altre 37 tele di cui Marella era piena proprietaria e che ha voluto destinare a John.
LA COLLEZIONE
Il valore totale della collezione nel 2004 venne stimato, molto al ribasso, in 213 milioni di dollari da David Somerset, l'esperto d'arte di cui Gianni si fidava di più. Ma tale stima era molto al di sotto del valore reale.
Basti pensare che, ad esempio, il famoso Harlequin, un'opera del 1909 di Pablo Picasso, venne valutato 6 milioni di dollari in sede di accordo tra madre e figlia, ma il suo valore cinque anni dopo era già salito a 30 milioni, secondo un catalogo d'asta di Sotheby' s dell'ottobre 2008. In una perizia che Marella fece fare nel 2018 la stima era salita a 90 milioni. Non è fuori luogo, quindi, affermare che in proporzione l'intera collezione possa oggi valere non 213 milioni ma oltre 2 miliardi di dollari.
In sostanza, al momento della morte di sua madre, Margherita è diventata più ricca di almeno 2,3 miliardi. La somma va aggiunta a quanto già destinato a lei nell'accordo del 2004, cioè 1,4 miliardi di euro. Un totale di almeno 3,7 miliardi. Oltre a questo, un altro immediato vantaggio per Margherita in virtù della morte della madre è stato quello di non doverle più pagare un assegno annuale di 7 milioni di euro, in ratei mensili, che era stato ottenuto da Marella quale parziale compensazione del «sacrificio» - a suo dire - che aveva dovuto subire con l'accordo di Ginevra.
In quei 15 anni (dal febbraio 2004 al febbraio 2019), la figlia aveva versato alla madre 105 milioni di euro. Era, curiosamente, la stessa cifra che Marella aveva versato alla figlia per comprare la quota di quest' ultima nella Dicembre per tagliarla fuori dalla cassaforte di famiglia. Margherita, che riteneva una trappola l'accordo del 2004, era furibonda di dover continuare a pagare quella cifra mensile che l'avvocato di Marella, Carlo Lombardini di Ginevra, con il suo accento francese, chiamava la «pansione», cioè la «pensione».
Margherita parlava di una vera e propria sofferenza allorché ogni mese autorizzava il bonifico di quasi 600.000 euro alla propria madre. Da lungo tempo meditava di sospendere i pagamenti, a titolo di «ritorsione. Ma gli avvocati di sua madre nel 2004 avevano posto una condizione per impedire che la «pansione» non venisse più pagata il primo giorno di ogni mese. Avevano ottenuto in pegno 26 quadri.
Nel gennaio del 2018, poco più di un anno prima della morte di sua madre, all'improvviso Margherita fece un gesto che avrebbe potuto evitare: smise di firmare quell'accredito mensile a favore di Marella. Fu il momento sbagliato poiché la madre stava molto male, e inoltre non era possibile violare unilateralmente un impegno firmato. La contessa de Pahlen era arrivata a questa decisione dopo che, rosa dall'ansia di voler aprire nuovi fronti legali, aveva consultato due giureconsulti svizzeri per sapere se esistesse la possibilità di intraprendere un'altra guerra giudiziaria: chiedere l'annullamento del famoso e mai digerito accordo di Ginevra, nonostante fossero passati 13 anni (si era negli ultimi mesi del 2017).
Margherita, dunque, aveva incaricato due importanti studi legali a Zurigo e Basilea di studiare il famoso accordo del 2004 e l'annesso patto successorio (contenente l'accordo tombale sulla rinuncia all'eredità futura di Marella) per vedere se esistessero aspetti che avrebbero potuto rimettere tutto in discussione. La formulazione di questo parere pro veritate fu affidata senza che nessuno dei due studi legali, per non essere in qualche modo influenzato, sapesse che anche l'altro stava lavorando in contemporanea sulla stessa questione.
I due studi dovevano esprimersi su questo aspetto: esistevano margini per poter chiedere a una Corte svizzera la nullità o l'annullabilità del contratto? Un accordo è nullo quando è contrario a norme imperative, quando mancano o non si sono realizzati uno dei quattro requisiti (accordo, causa, oggetto, forma), quando la causa è illecita o manca l'oggetto del contratto. Il contratto nullo è come se non fosse mai stato stipulato.
Un accordo invece è annullabile nel caso di vizi del consenso e nei casi di errore, violenza minacciata o dolo. L'errore è riconoscibile quando una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo. Margherita riteneva di essere stata vittima proprio di questo.
I due giuristi erano pervenuti a conclusioni analoghe: a loro parere l'accordo e il patto presentavano aspetti di annullabilità. Non restava che rivolgersi a un Tribunale svizzero. E Margherita lo fece immediatamente nella speranza che il giudice dichiarasse quell'accordo «non valido», come se non fosse mai esistito, con tutto quanto ne conseguiva. Si sarebbe quindi venuta a creare una situazione per cui i contraenti avrebbero dovuto restituire reciprocamente ciò che avevano ricevuto, in particolare riguardo all'asset più pregiato: il controllo del gruppo automobilistico.
Marella avrebbe dovuto ridare alla figlia le azioni di controllo del gruppo Fiat (in primis le quote della Dicembre, quelle dell'Accomandita Giovanni Agnelli & C. e di Exor e le partecipazioni da essa detenute, insieme ad altri numerosi asset), mentre Margherita avrebbe dovuto ridare alla madre, con gli interessi, il denaro e i beni ricevuti in quel lontano 2004.
C'era una sola ma importantissima differenza tra i due pareri legali. Secondo Zurigo, l'accordo era annullabile al 100%, non c'era alcun dubbio. Era proprio ciò che Margherita voleva sentirsi dire. Invece, il parere di Basilea, pur arrivando alle stesse conclusioni, delineava uno scenario che invitava alla prudenza e introduceva un importante elemento di cui tener conto: anche se l'accordo fosse stato nullo o annullabile, bisognava tener conto di un orientamento giurisprudenziale che da tempo caratterizza molti sistemi giuridici europei.
E cioè: il divieto di abuso del diritto. Significa che non è possibile pretendere che, pur di fronte a una nullità o annullabilità conclamata, un accordo dopo un certo tempo e di fronte al mutare delle condizioni venga cancellato se la situazione è radicalmente mutata. In altre parole, se Margherita aveva deciso di «disfarsi» delle azioni del gruppo automobilistico quando il loro valore era minimo e si prefiguravano tempi bui, a distanza di anni non era possibile chiedere la restituzione di quegli asset che nel frattempo avevano moltiplicato il loro valore di almeno 20 volte. Utilizzare il ricorso per una simile «operazione» configurerebbe un «abuso del diritto».
L'esercizio del diritto, quindi, è «inammissibile se può avere il solo scopo di provocare danno ad altri». Il parere di Basilea, dunque, anticipava saggiamente i pericoli e i rischi legati a un'azione giudiziaria volta a chiedere la cancellazione degli effetti dell'accordo del 2004. Non solo, ma oltre al rischio fondato di vedersi respingere la richiesta, c'era anche quello di essere sanzionati dalla Corte. Margherita Agnelli non ha tenuto in alcun conto del parere dello studio di Basilea e ha optato per la immediata causa contro l'anziana madre. Ha fatto preparare un'azione giudiziaria e l'ha presentata al Tribunale di Ginevra nei primi mesi del 2018.
Ovviamente non sapeva che Marella sarebbe morta nel giro di un anno, ma era facile prevedere che le restasse poco da vivere. Nonostante questo non ha esitato a chiamarla in causa indicando, in subordine - nel caso la madre nel frattempo fosse venuta a mancare - anche un secondo convenuto: il figlio John Ekann. Egli, furibondo, ha scelto come difensore l'avvocato Carlo Lombardini di Ginevra. Il legale conosce benissimo la materia poiché, tra il 2003 e il 2004, era stato lui a guidare sul campo le operazioni, con Gabetti e Grande Stevens.
Lombardini aveva condotto le trattative con gli avvocati di Margherita ed era stato il principale artefice della formulazione di quell'accordo. Di conseguenza, l'avocato svizzero vedeva messa in dubbio anche la sua capacità professionale. Il legale ginevrino era completamente d'accordo con le considerazioni espresse da John: «Mia madre 15 anni fa si è "disfatta" molto volentieri delle azioni del gruppo poiché valevano poco. Riteneva impossibile che Fiat uscisse dalla crisi in cui si trovava e non pensava che il valore del gruppo, dopo aver corso il rischio del fallimento, crescesse enormemente com' è avvenuto con un duro lavoro. È troppo comodo, adesso, pentirsi di non aver creduto nell'azienda e quindi in me e nel mio lavoro e chiedere la restituzione di azioni che ora valgono almeno 20 volte tanto!».
LO SGARBO
Margherita, in quel gennaio 2018, contemporaneamente all'azione giudiziaria, fece un altro sgarbo alla madre, un gesto che avrebbe potuto evitare. Sulla base di quei due pareri legali, decise di interrompere immediatamente il pagamento della «pensione» mensile alla società che agiva per conto di sua madre.
La signora che si occupava degli affari amministrativi e contabili della vedova Agnelli pensò si trattasse di un errore o di un problema bancario e informò Marella senza crearle inutili allarmismi. Ma, alla fine del febbraio successivo, quando non arrivò nemmeno l'altra rata, informò John. Venne attivato l'avvocato Lombardini che, con grande accortezza, telefonò a casa di Margherita ad Allaman (non riuscendo a sapere qual era il nuovo legale della contessa de Pahlen) per avere notizie. Solo qualche giorno dopo, il nuovo e inesperto segretario di Margherita diede una sorprendente risposta: «La contessa mi incarica di informarla che il pagamento mensile è sospeso».
Quando finalmente riuscì ad avere una laconica motivazione («Si tratta di motivi di ordine legale»), Lombardini chiese qual era l'avvocato di Margherita cui rivolgersi. Nessuna risposta. Il neo segretario evidentemente ancora non sapeva a quale tipo di figuracce sarebbe stato esposto nel corso del tempo. Margherita, all'improvviso, aveva affidato a questo giovanotto i pieni poteri, soprattutto quello di tenere i rapporti con il folto gruppo di persone con cui non voleva comunicare direttamente.
Al nuovo collaboratore era stato addirittura affidata la delicatissima responsabilità di capo del «family office». Si trattava di Achille Deodato, 35 anni, laurea alla Luiss di Roma, figlio di Giuseppe Mario Benedetto Deodato, siciliano di Villarosa (Enna), dal 2006 e per qualche anno ambasciatore a Berna (nominato dal governo Prodi e quindi dal ministro degli Esteri Massimo D'Alema), dal 2003 direttore generale della Farnesina per la cooperazione allo sviluppo.
Margherita aveva affidato a Deodato jr una delega generale e un potere assoluto, arrivando addirittura a licenziare il suo procuratore speciale in Italia, l'avvocato Roberto Cattro, un professionista che aveva svolto incarichi molto delicati nei suoi tre anni di lavoro, specie nell'ultimo periodo di vita di Marella, compresi i contatti con la magistratura e gli avvocati, soprattutto controllando lo stato degli immobili, i rapporti con il personale, l'inventario fotografico e la valutazione aggiornata di tutti i beni di cui Marella aveva l'usufrutto e Margherita la nuda proprietà.
Sembra che Cattro abbia in corso un tentativo di definizione amichevole, una causa assistito dallo Studio Bin di Torino. Margherita non aveva voluto sentire ragioni ed era ostinatamente andata avanti per quella strada. La sospensione del pagamento alla madre, senza che venisse data alcuna comunicazione, aveva ovviamente determinato periodiche telefonate di civile protesta e di stupore da parte dell'avvocato Lombardini.
Dopo il primo tentativo andato a vuoto, aveva fatto interpellare in Italia proprio l'avvocato Cattro il quale, essendo ancora nel pieno delle sue funzioni, aveva riferito il messaggio a Margherita e saputo casualmente e a grandi linee la ragione per cui era stato sospeso il pagamento mensile a Marella.
In una riunione ad Allaman (presenti Margherita, il marito, il suo avvocato italiano Trevisan, quello svizzero Janneret e Cattro), qualcuno definì «suicida» la decisione, aggiungendo: «Signora, non dimentichi che qui siamo in Svizzera. A quanto pare sono l'unico a ricordarglielo».
Gli avvocati infatti non avevano osato mettere in guardia la cliente dalla sua sconsiderata decisione. Margherita e i suoi legali avevano fatto finta di ignorare un particolare di grande rilevanza, ricordato invece da uno dei presenti: «Non dimenticate che questo comportamento può consentire a donna Marella di far uscire dal suo caveau svizzero i 26 quadri, che lei tiene in pegno, e metterli all'asta. Si tratta di un controvalore che nel 2004 era stato fissato in 70 milioni. Tuttavia è bene ricordare che una sola di queste opere, il Picasso, oggi ne vale 90 anche se era stato valutato 6. Vale la pena correre il rischio che donna Marella proceda alla vendita?».
Nel frattempo, si era arrivati a marzo, le rate mancanti erano salite a tre, per un totale di quasi 2 milioni di euro. Visto il muro di gomma eretto da Margherita, dopo l'ennesima inutile telefonata ad Allaman, e passata inutilmente la scadenza di un'ulteriore rata, Lombardini decise di mettere a punto con John una nuova strategia. Chiamò ancora una volta casa de Pahlen: «Visto che siamo arrivati alla quarta rata non pagata, vogliate informare la contessa che la vedova Agnelli si riterrà libera di mettere in vendita alcuni quadri di cui è usufruttuaria.
Visto che l'accordo di Ginevra non viene ottemperato ed è stato violato da una delle due contraenti, e dato che "non ci si può fare giustizia da sé" né disattendere gli impegni sottoscritti, la mia assistita ha deciso di mettere in atto alcune iniziative per rientrare dei suoi crediti». Margherita non volle sentire ragioni, «Vediamo che cosa osano fare!», disse in segno di sfida. Si era arrivati al mese di giugno, Marella da sei mesi aveva smesso di ricevere la sua «pansione», come la chiamava Lombardini, per un totale di circa 2,5 milioni di euro.
A sbloccare il tutto e a far tornare Margherita alla «ragione» erano stati due avvenimenti. Un quotidiano svizzero aveva pubblicato una breve notizia: «Sotheby's ha reso noto che tra qualche settimana si terrà una importante asta con sei dipinti appartenenti alla collezione di Gianni e Marella Agnelli. Tra le opere ci sarà anche l'Harlequin di Pablo Picasso». Seguivano i dettagli tecnici: «Data di attribuzione 1909, oil on canvas (olio su tela), dimensioni 93x72».
L'allarme ad Allaman era scattato immediatamente ed era stata subito convocata una nuova riunione. Il procuratore italiano, dopo aver ascoltato un improbabile «piano di guerra», destinato a una sicura sconfitta, aveva sfoderato un argomento molto convincente: «L'altra volta vi avevo invitato a fare bene i conti e a valutare ciò che sarebbe potuto accadere. Non mi avete voluto ascoltare. Sembrate dimenticare che c'è un pegno che non è stato onorato e ora, invece, vi spaventate perché donna Marella, com' è sua facoltà, si è rivolta a Sotheby's.
Vi invito a riflettere: con qualche cavillo potreste anche riuscire a sospendere l'asta che, comunque, prima o poi, si terrà poiché donna Marella può legalmente mettere in vendita quei quadri. Quando ciò avverrà, non riuscirete a impedire che un compratore "ignoto" possa portare a casa per 70 milioni opere che valgono più di un miliardo. Vi esorto a considerare che c'è la fondata possibilità che questo sconosciuto compratore sia stato mandato proprio da suo figlio e agisca su suo mandato riservato».
E, subito dopo: «Attenzione, perché in tal caso l'affare lo fanno gli Elkann. Potranno portarsi a casa per un tozzo di pane un miliardo di tele appartenute a Gianni Agnelli».
RAPPRESAGLIA
La reazione di Margherita era stata veemente: «Preferirei distruggere quei quadri e bruciarli piuttosto che vederli finire nelle mani di mio figlio e dargliela vinta». L'avvocato Cattro osò replicare: «Contessa, non può farlo, poiché quei quadri non sono nella sua disponibilità ma si trovano in pegno».
Margherita non appena ascoltò questo tipo di considerazioni cambiò subito idea. Il procuratore, dopo averla finalmente convinta, aggiunse: «Contessa, mi permetto di darle un consiglio: già domani accrediti a sua madre la somma degli arretrati e, con un gesto che sono certo verrà apprezzato, anticipi anche il pagamento dei prossimi mesi, fino a dicembre. In tal modo l'avvocato Lombardini eviterà di chiederle gli interessi sulle somme non versate».
È probabilmente nel periodo in cui si registrarono tali tensioni che donna Marella, o qualcuno a lei molto vicino, escogitò una «rappresaglia»: far stipulare a John un contratto di affitto di Villa Frescot per sei anni con Marella. Il contratto venne stipulato, Marella era la locataria, il nipote il locatore. Il tutto, ovviamente, all'insaputa di Margherita. Che, il giorno della morte di sua madre, non avrebbe potuto prendere possesso della villa per alcuni anni poiché «occupata» da un regolare inquilino, suo figlio John.