GALLI DA COMBATTIMENTO - L’AIDS, LA MILANO DA BERE LA SINISTRA, IL COVID (ANZI, LA COVID) E I VACCINI: L'INFETTIVOLOGO MASSIMO GALLI MOLLA IL FRENO - “I NO VAX SOMIGLIANO A UNA CATEGORIA DI PERSONE CHE C'È SEMPRE STATA E CI SARÀ SEMPRE: I NEGATORI. MI HANNO CHIESTO PIÙ DI UNA VOLTA DI ENTRARE IN POLITICA, ANCHE RECENTEMENTE, MA...” - “LA COMUNICAZIONE SUL VIRUS È STATA UNA SCHIFEZZA, MA LE DIVISIONI TRA VIROLOGI SONO UNA SEMPLIFICAZIONE VOLUTA DALLA DESTRA. A CHE ETÀ SI DIVENTA VECCHI? QUANDO SI MUORE"
-Andrea Malaguti per “Specchio- La Stampa”
Non so se capita a tutti, ma in questi due anni mi sono fatto la mia speciale classifica di scienziati, virologi e infettivologi. Convinto con Thomas Hardy che gli aspetti sono in noi e dunque chi si sente più regale è il re, ho deciso che il mio re è il 70enne Massimo Galli. C'è qualcuno di cui fidarsi nel bizzarro circo televisivo di luminari poco illuminanti? Galli, nessun dubbio.
Forse perché ha quello sguardo che non si addolcisce e non vacilla mai, forse perché ha sbagliato solo una previsione («se riapriamo le città durante l'estate rischiamo un nuovo collasso», magari non con queste parole ma una cosa molto simile), forse perché si vede che nei dibattiti vorrebbe incenerire i ciarlatani. Ma in definitiva perché con i virus ci ha passato la vita.
Li conosce e ha imparato a temerli e a batterli. Prima l'epatite, poi l'AIDS (nel campo è uno degli scienziati più stimati del pianeta) adesso, da primario del Sacco di Milano, il Coronavirus. C'è qualcosa di profondamente politico nel rigore aggressivo di Galli, un'intransigenza progressista (sembra un ossimoro, certo) che gli impedisce qualunque forma di indulgenza verso chi blandisce sgangheratamente i No Vax.
Anzi, quel disastro da piccola piazza, sbandierato come salvifico da certa destra, gli sembra un commento pertinente alla vanità delle cose, alla fragilità di idee che fingono di farsi principio e invece sono solo micro-calcoli elettorali destinati al naufragio. «Sono di sinistra, ma con la mia avversione ai No Vax non c'entra nulla». E in questa intervista, in cui racconta un pezzo della sua storia, spiega il perché. E, soprattutto, chi è.
Professor Galli, peggio il Covid o l'Aids?
«Mi perdoni se comincio con una pedanteria: ma si dice la Covid, o il Coronavirus».
Mi perdoni lei. Peggio la Covid o l'Aids?
«L'Aids è stata una cosa tremenda, tuttora non risolta, che ha caratterizzato una gran parte della mia vita professionale e mi ha messo nella condizione di fronteggiare problemi di persone che sono andati avanti per anni».
Da principio non si salvava nessuno.
«Ho assistito a lungo al declino dei pazienti in condizioni di impotenza. Non è stato facile, perché spesso si trattava di giovanissimi. Ragazze e ragazzi che peggioravano inesorabilmente. Con loro il rapporto di conoscenza e di solidarietà finiva per superare quello professionale, trasformandosi in una relazione anche emotiva. Ho molto chiara nella mente la galleria di ritratti delle persone che ho visto morire. E ho chiaro il loro stato d'animo».
Qual era?
«Alcuni erano legittimamente furibondi. Non accettavano il loro fato. Altri erano arresi, perché il virus li aveva colpiti profondamente, debilitandoli. Altri rimanevano lucidissimi e pieni di dignità fino alla fine, malgrado il dolore li schiacciasse».
C'è una storia che proprio non dimentica?
«Non ne dimentico nessuna. Ma tre mi vengono in mente prima. Una giovane donna che aveva contratto l'infezione con un unico rapporto a rischio. Un collega che era stato infettato da una ragazza con cui aveva un rapporto stabile. E poi un giovane con un breve trascorso di tossicodipendenza, infuriato col mondo e deciso a rifiutare i farmaci perché comunque non garantivano la sopravvivenza».
Erano i favolosi anni 80 e l'Aids sembrava un castigo divino. Che esperienza fu per lei?
«Dal punto di vista professionale fu un'esperienza estremamente coinvolgente. Mi mise in contatto con mondi a me in larga misura sconosciuti. La chiamavano la peste dei gay, dei tossicodipendenti, o anche, con una definizione altrettanto orrenda, la malattia delle devianze, dei comportamenti contrari alle regole, alla più banale ortodossia sociale. E sì, qualcuno parlava di Castigo di Dio, dicendo che colpiva gli omosessuali perché si caricavano di antigeni che i maschi non dovrebbero ricevere da altri maschi e i tossicodipendenti perché bucandosi alteravano il sistema immunitario».
E invece?
«Era una malattia virale, come l'epatite B. Fu subito chiaro a chiunque capisse un minimo di epidemiologia, poi ci accorgemmo che era un retrovirus. Quando arrivava lo faceva per rimanere. Combatterlo fu difficilissimo. Sembrava una sentenza inappellabile, il bacio della morte».
Le piaceva la Milano da bere?
«Erano anni in cui ero impegnato soprattutto a lavorare. La mia socialità era piuttosto limitata dal punto di vista della mondanità. Ma no, se devo dare una risposta secca, la Milano da bere non mi piaceva».
A lei è mai venuta la tentazione di giudicare un paziente?
«Beh, guardi, no. La mia esperienza nel campo delle malattie infettive, e dell'epatite in particolare, mi aveva portato a una scelta di campo. In reparto, su 90 letti che avevamo, 85 in genere erano occupati da tossicodipendenti in crisi di astinenza. Non me la sentivo proprio di giudicare. Mica potevo mettermi a fare il carceriere. Ho sempre avuto un atteggiamento sinceramente empatico. Diversamente sarebbe stato impossibile».
Non giudica neppure i No Vax?
«È una cosa completamente diversa, abbia pazienza. Quelli erano gli anni Settanta e Ottanta e noi curavamo tossicodipendenti duri. I No Vax però somigliano a una categoria di persone che c'era già allora e forse c'è sempre stata e ci sarà sempre: i negatori».
Chi sono?
«Quelli che dicono: ma no, non esiste, ma quale malattia, è Big Pharma che vuole fare soldi sulla pelle dei poveri cristi».
Oggi c'è la destra a cavalcare l'onda negazionista.
«Ma quella è arrivata dopo. Io parlo dei cultori delle terapie alternative, degli oppositori della medicina ufficiale, dei demonizzatori delle case farmaceutiche, che certo hanno molti peccati sulla coscienza ma senza le quali non riusciremmo a campare fino a 90 anni. O meglio, ci riuscirebbe solo una sparuta minoranza di ricchi privilegiati».
Quanto è grave che la politica occhieggi a certe sensibilità antiscientifiche?
«È irrilevante che io dica se è accettabile o meno, perché purtroppo è un dato di fatto. Che da un lato rispecchia il fallimento della politica, perché se scendi a questo livello per cercare consensi significa che non hai grande fiducia nelle tue idee. E dall'altro dimostra che per alcuni tutto fa brodo. Anche fare leva sulla paura di molte persone, figlia di una comunicazione che è stata una schifezza».
Gli scienziati hanno contribuito alla comunicazione schifezza?
«Alcuni, può darsi».
Vi hanno diviso in partiti. Con un paradossale ribaltamento: a sinistra i rigorosi intransigenti (tipo lei o Burioni), a destra i tolleranti speranzosi (tipo Zangrillo e un tempo Bassetti).
«Una semplificazione giornalistica voluta dalla destra che è andata a cercare i riduzionisti. Un'operazione bieca. Non dico che nella comunità scientifica ci sia una unanimità bulgara, ma su numeri e dati la stragrande maggioranza di noi ha la stessa identica posizione.
Per me, che non amo guardare indietro, è difficile dimenticare che ancora il 27 luglio del 2020, durante un convegno al Senato, ci fu chi sostenne che il virus era stato battuto. Invece il virus si stava ancora dando un bel da fare. Dal primo settembre del 2020 al primo settembre del 2021 i morti sono stati 93 mila. Qualche responsabilità morale i riduzionisti e quelli che "apriamo tutto o la gente morirà di fame", a mio avviso ce l'hanno».
Le norma italiane sul Green Pass sono le più rigorose d'Europa.
«Perché si sono create le condizioni giuste. Una maggioranza larga e una guida forte. Non c'erano alternative se volevamo traghettare il paese in una fase di minore problematicità. In Italia la crisi è arrivata prima e siamo stati capaci di affrontarla in anticipo».
Nessuna dittatura sanitaria, quindi?
«Quello è solo uno slogan buono per chi strizza l'occhio ai No Vax, salvo scoprire che anche all'interno del proprio elettorato i No Vax sono una minoranza. La gente non ha voglia di trovarsi al lavoro colleghi non vaccinati. È anche una questione di solidarietà. E di buonsenso. Che fortunatamente sono prevalenti».
Perché lei è diventato più famoso di altri?
«In verità non lo so. Non certo per la mia indiscutibile bellezza. Forse perché sono credibile. E quello che dico in genere accade».
Un flashback. Il clamoroso bacio di Ferdinando Aiuti a Rosaria Iardino fu necessario o piuttosto il primo caso di marketing individuale?
«È abbastanza noto che io sono contrario alla spettacolarizzazione. Ma Aiuti, che è stato un grande combattente con qualche forma di attrazione verso il protagonismo, con quel gesto fu in grado di mettere in crisi le stupide certezze di chi demonizzava l'Hiv».
Professore che mestiere faceva sua madre?
«La casalinga».
E suo padre?
«Era un medico di base. Il primo laureato della sua famiglia».
Lei ha fratelli?
«No figlio unico».
È sempre stato di sinistra?
«Alle medie forse no, dal liceo in avanti certamente sì».
Perché?
«Perché in quegli anni l'indifferenza pedagogica era inaccettabile. Noi eravamo baby boomers e la tendenza era quella di stiparci nelle classi per poi bocciarci in massa lasciando che al liceo arrivassero in pochi».
Mai stato bocciato?
«No. Ma quel modo mi sembrava da combattere».
Negli anni Settanta lei era un ventenne. Allora la tentazione di prendere un'arma in mano per cambiare il mondo era abbastanza diffusa.
«È vero, ma io non avevo né l'indole, né i contatti, né l'intenzione».
Ha conosciuto qualcuno che l'avesse?
«Un famoso leader delle Br era nella classe di fianco alla mia, ma fortunatamente per me abbiamo imboccato strade molto diverse».
Chi era?
«Non mi pare giusto dirlo. Però non posso fare a meno di rilevare che eravamo pesci che nuotavano nello stesso mare. Forse mi ha salvato avere solide basi culturali».
Quando ha conosciuto sua moglie?
«Ventisette anni fa. Ero volontario per l'Anlaids e lei si occupava di educazione alla salute. Entrambi avevamo già un figlio».
È un romantico?
«Mi piace pensare che gli infettivologi lo siano. La professione non è particolarmente remunerativa, però piuttosto significativa. Soprattutto in aree del mondo spesso dimenticate. È uno dei motivi per cui l'ho scelta in una Milano da bere molto più concentrata, anche adesso, sulle cose pratiche, mentre io per tutta la vita ho curato persone ai margini».
Crede in Dio?
«Sono un laico incallito. Ma forse certe scelte le faccio per narcisismo».
Professore, Draghi o Conte?
«È abbastanza ovvio dire Draghi. Senza offesa per Conte, che è certamente una persona perbene. Ma il curriculum di Draghi è un'altra cosa. Diciamo che la voce di Draghi in Europa è più esportabile e ascoltata».
Letta o Bersani?
«Ce l'ha una domanda di riserva?».
Renzi o Bonaccini?
«Mettiamola così: direi che nella sinistra politica c'è molto da ricostruire».
Se le chiedessero di entrare in politica?
«È successo più di una volta. Anche recentemente. Ma per ora la risposta è stata no».
Per ora.
«Dovrebbero esserci solidissime motivazioni e solidissimi scopi perseguibili».
Professore, che voto dà ai suoi primi 70 anni?
«Credo di non avere fatto flanella. Ho lavorato molto, sperimentato molte cose. Ho pochi rimpianti e pochissimi rimorsi e in ogni caso preferisco i rimorsi ai rimpianti. Certo, se mi fossi divertito di più in effetti sarebbe stato meglio».
Magari lei si diverte così.
«Magari sì».
A che età si diventa vecchi?
«Quando si muore. O quando non si è più in condizione di fare le cose principali e soprattutto di usare la testa come si vorrebbe. Ma la domanda è troppo complessa per rispondere con una battuta. Se i miei colleghi gerontologi mi sentissero rispondere così probabilmente mi infilzerebbero».
Che rapporto ha con la morte?
«L'ho incontrata molte volte e ho dovuto anche scherzarci su. Spesso i medici lo fanno, diversamente diventa difficile portare avanti la propria professione e la propria esistenza. In caso di necessità mi rifugio nella saggezza di un mio amico francese».
Possiamo rifugiarci anche noi?
«In verità lui è solo mezzo francese. Viene da una famiglia del Lago Maggiore e la frase che usa, citando suo padre, è questa: pecà morì, peccato morire. Che letta nel modo giusto significa: bello vivere. Ecco, io credo che sia importante non buttare via il tempo, impiegarlo bene, perché poi non è che ne abbiamo tanto a disposizione. Bisognerebbe usarlo per cose che ci danno gusto».
A lei che cosa dà gusto?
«A me dà gusto servire gli altri».
Adesso va in pensione.
«Giusto così. Lascio spazio ai giovani e darò una mano a chi me lo chiede».
È vero che sta scrivendo un libro?
«Due».
Cioè?
«Uno è un libro intervista. L'altro un romanzo di fantascienza. Solo che le case editrici mi dicono che da me la gente si aspetta altro».
E lei che cosa risponde alle cosa editrici?
«Rispondo: chissenefrega».