GIUSTIZIA È SFATTA! - FILIPPO FACCI: “IL CASO DI GIULIA LIGRESTI DIMOSTRA CHE LO SCHIFO DELLA GIUSTIZIA ITALIANA NON È UNO SCHIFO SOLO QUANDO FUNZIONA MALE: LO È QUANDO FUNZIONA E BASTA, PER COME FUNZIONA, PER COME È” - “SI RICONOSCE UNA ‘EQUA RIPARAZIONE’ SOLO PER LE CIRCA DUE SETTIMANE DI GALERA PATITE PRIMA DI CHIEDERE IL PATTEGGIAMENTO. NON SOLO. FORSE CONSAPEVOLI CHE IL QUADRO GENERALE FA COMUNQUE SCHIFO, LA SI QUADRUPLICA. E PERCHÉ? TENETEVI FORTE: ‘IN CONSIDERAZIONE DEL CLAMORE MEDIATICO DELL'ARRESTO’. CIOÈ: IN TUTTA QUESTA STORIA HANNO SBAGLIATO I GIORNALISTI…”
-Filippo Facci per “Libero quotidiano”
È il caso perfetto. Dimostra che lo schifo della giustizia italiana non è uno schifo solo quando funziona male: lo è quando funziona e basta, per come funziona, per come è, per chi lo mantiene così.
Cominciamo con Jonella Ligresti, anche lei figlia del costruttore e assicuratore Salvatore: nel 2006 è la manager più pagata d'Italia, la prima a sedere nel cda di Mediobanca. Sua sorella minore, Giulia Maria, più belloccia e defilata, è un'artistoide alla milanese con ruoli dirigenziali di facciata nell'azienda paterna, una vicepresidente senza deleghe. Per non sbagliare, la magistratura arresta entrambe le sorelle il 17 luglio 2013 su mandato della procura di Torino per l'inchiesta sulla compagnia Fonsai.
Il fratello più piccolo, Paolo, scampa all'arresto immediato solo perché da una settimana è diventato cittadino svizzero. Accuse per tutti e tre: falso in bilancio e aggiotaggio informativo, roba pesante come la galera.
Giulia Maria non ce la fa, non resiste al tritacarne e alla «fiducia nella giustizia», e patteggia. Qui va spiegato un punto chiave di tutto lo schifo. Come più volte spiegato, il patteggiamento è una resa all'accusa: si patteggia una pena e si «esce» dal processo senza neanche presentarsi in aula, cioè senza un vero confronto con accuse e accusatori.
E non tutti resistono durante carcerazioni preventive interminabili, non tutti gli indagati ce la fanno ad attendere processi da celebrarsi chissà quando: perché a molti interessa uscire dal carcere il prima possibile e veder dissequestrati i conti bancari resi inaccessibili alla famiglia, ai figli, all'azienda, e questo, assai spesso, anche se chi patteggia si ritiene innocente o lo è.
Parentesi: Mani pulite funzionò in buona parte così, con patteggiamenti legati alla discrezionalità dei magistrati nel concedere scorciatoie pagate a caro prezzo per chi voleva uscire dal tritacarne. Chi non accettava resta ostaggio della macchina giudiziaria.
STESSO REATO
Giulia Maria però decide di cedere, o cede e basta: dopo 16 giorni di carcere, il 2 agosto, chiede il patteggiamento dopodiché le danno altri 50 giorni di arresti domiciliari solo per via di acclarati motivi di salute, e il 3 settembre, a Torino, ecco la pena patteggiata: 2 anni e otto mesi. Giulia però è fuori.
Sua sorella Jonella invece non patteggia, anche se è dura: sua figlia Ludovica, come racconta Jonella a Stefano Zurlo del Giornale, va a trovare la madre a San Vittore e le urla addosso: «Basta, devi patteggiare come ha fatto la zia, Paolino piange tutte le sere, patteggia e facciamola finita».
A Jonella Ligresti il patteggiamento non viene concesso, perché il giudice valuta troppo mite la pena concordata con il pubblico ministero.
A Giulia sì, a lei no. Così resta dentro per quattro mesi più otto ai domiciliari, che sommati fanno un anno. Qui non stiamo a inseguire tutte le date, perché sarebbe un suicidio: il reato è lo stesso per tutti e i familiari, ma nei fatti i processi sono tre e le sedi di giudizio due.
A tre anni dall'arresto, comunque, Jonella viene condannata in primo grado a 5 anni e 8 mesi. Poi ricorre in Appello, e sorpresa: la Corte annulla tutto e stabilisce che la competenza non è di Torino ma è di Milano. Tutto daccapo, ma dopo qualche mese i pm meneghini chiedono direttamente l'archiviazione senza neppure un rinvio a giudizio, cioè un processo.
In momenti diversi, Jonella e Paolo saranno prosciolti per gli stessi reati che il 3 settembre 2013 avevano vista condannata (con patteggiamento) la sorella Giulia: e si fa ingarbugliata, perché Giulia ha accettato di ammettere la propria colpevolezza per reati che sono gli stessi (non) commessi dai familiari.
COLPA DEI GIORNALISTI
La macchina, pur con passo plantigrado, si rimette in moto. Il 19 ottobre 2018 Giulia Ligresti fa in tempo ad essere arrestata per scontare un residuo della pena patteggiata nel 2013: passa un paio di settimane dentro e aspettare che il contrasto tra giudizi (giudicati, ossia teoricamente definitivi) sfoci in una cosiddetta «revisione» per errore giudiziario, che finalmente ferma la detenzione il 7 novembre 2018.
Per l'assoluzione piena serviranno altri sette mesi: la richiesta giungerà il 1° aprile 2019 «perché il fatto non sussiste». Per farla breve - breve per noi, non per loro - affinché tutto vada a posto occorre aspettare sino al 2021, quando anche Jonella Ligresti viene prosciolta a Milano e quando Giulia chiede un equo risarcimento per ingiusta detenzione e anche per errore giudiziario, che sono due istituti diversi.
Alla fine della fiera, come speriamo, l'ha capito chiunque che lei chiese e ottenne un patteggiamento (dando ragione alla procura, che pure aveva torto) pur sapendosi innocente, e non avendo mai avuto cariche operative. Ma ecco che la Corte d'Appello decide di negarle ogni forma di «ristoro», e questo proprio perché lei aveva deciso di patteggiare. Per la stessa ragione.
La corte non riconoscerà come «ristorabili» neanche i residuali giorni di galera successivi al patteggiamento. E che cosa si riconosce, allora? Attenzione: si riconosce una «equa riparazione» solo per le circa due settimane di galera patite prima di chiedere il patteggiamento.
Non è propriamente un risarcimento, perché nessun giudice ha ufficialmente sbagliato: è colpa sua, di lei, che ha ceduto al patteggiamento (ben accolto dal pm e dal giudice, e che tutto il sistema giudiziario cerca di fisiologicamente di importi) perché il suo comportamento «presuppone il suo implicito riconoscimento di responsabilità».
Non solo. Forse consapevoli che il quadro generale fa comunque schifo, si decide arbitrariamente di violare i parametri di legge (che prevedono un massimo di 256 euro al giorno di riparazione) e lo si quadruplicano: 1000 euro al giorno, totale 16mila euro per sedici giorni. E perché? Tenetevi forte: «In considerazione del clamore mediatico dell'arresto». Cioè: in tutta questa storia hanno sbagliato i giornalisti.