GRANDI PENSATORI, GRANDI FATTONI – LA “STORIA STUPEFACENTE DELLA FILOSOFIA” DI ALESSANDRO PAOLUCCI: I GRECI ANDAVANO IN TRIP CON UNA BEVANDA MAGICA, IL PARASSITA CORNUTO DI GRANO, L’IMPERATORE FILOSOFO MARCO AURELIO COMBATTEVA L’INSONNIA CRONICA CON LA TERIACA, A BASE DI OPPIO E ALTRE SOSTANZE PULP - FREUD, CHE ERA COCAINOMANE DI SUO, PER FAR PARLARE I PAZIENTI PRESCRIVEVA LA POLVERINA BIANCA ANCHE A LORO. SARTRE INVECE SI SPARAVA ALMENO 20 PASTICCHE AL GIORNO DI UN MEDICINALE A BASE DI…
-Livia Tan per “Libero quotidiano”
Ma questi cosa si fumavano? Esordisce così Alessandro Paolucci, introducendo il lettore alla Storia stupefacente della filosofia (Ed Saggiatore), attraverso un viaggio, o sarebbe meglio chiamarlo trip, che ci svela quanto i paladini del sapere, i semidei che chiamiamo filosofi, fossero strafattoni fin dall'antichità.
A cominciare proprio dal padre della filosofia, Platone, che esorta i suoi discepoli a uscire dalla caverna, per vedere la luce.
Per avere un'anteprima dell'aldilà, spiega Paolucci, ai tempi dell'antica Grecia dovevi essere in lista per partecipare al culto di Eleusi.
Soltanto lì, dopo trance e balli, e grazie a una bevanda magica allucinogena, probabilmente a base di parassita cornuto di grano, i filosofi pronunciavano la parola d'ordine che svelava il sapere divino.
Come i Blues Brothers, scrive Paolucci, Eschilo, Socrate e Platone erano «in missione per conto di Dio» e il pensiero occidentale si fonda sul trip di Eleusi. E se gli antichi greci inseguivano l'astrazione, anche gli imperatori romani, per fare Roma, ebbero bisogno di un aiutino. Lo sapeva bene Marco Aurelio, grande stratega e filosofo, che soffriva d'ansia e insonnia cronica.
La sua salvezza fu la teriaca, una pozione magica che per secoli fu considerata prodigiosa, sopravvalutata secondo Plinio il vecchio, riformulata dal mago delle ricette antiche Galeno di Pergamo, pusher ufficiale dell'imperatore.
Dentro la teriaca c'era di tutto, soprattutto oppio, e molte altre sostanze pulp. Divenne l'antidepressivo di Marco Aurelio, e lo aiutò a conquistare il mondo.
OPPIO E PSICANALISTA
Il padre della psicanalisi Sigmund Freud, invece, aveva uno strano modo di concepire le dipendenze.
Con la scusa di sperimentare su di sé in nome della ricerca scientifica, finì per diventare cocainomane.
Freud infatti provò il "farmaco" e gli parve prodigioso. Curava tutto: dolore, stanchezza, depressione, ed era anche un buon alleato per serate mondane e iper lavoro.
Sembrava funzionare anche per i morfinomani, come il collega Fleisch Marxow, che si era gravemente tagliato il pollice della mano e assumeva morfina per lenire il dolore.
Freud gli prescrisse cocaina, via endovenosa, e lì per lì sembrò giovargli, fino a quando cominciarono a comparire terribili allucinazioni di insetti e serpenti che strisciavano sulla sua pelle. Il poveretto morì a 45 anni, forse nell'atto di iniettarsi un grammo di cocaina, la sua dose giornaliera.
Tuttavia Freud, ossessionato dalla polvere bianca, fini per commettere grossi errori di valutazione imparando ad inalare cocaina dalle narici, sempre per amor di ricerca...
Quel che resta evidente, insinua Paolucci, è che il dottor Freud sapeva far parlare i pazienti sdraiati sul lettino, forse resi così ciarlieri dopo aver assunto il farmaco consigliato dal medico di fiducia. «Questa sera prendere tanto oppio da perdere la ragione».
Ottimi anche i propositi di Friedrich Nietzsche che nel 1882 da Rapallo scriveva agli amici Paul Rée e Lou Von Salomé, cercando rimedi per lenire l'emicrania.
Fritz, il super uomo bullizzato da Wagner, il filosofo a metà tra "il dottor House e Marylin Monroe", non era un fumatore di oppio, lo assumeva come medicinale per dominare il mal di testa cronico, rimediare alla perdita della vista all'occhio destro, e controllare i momenti di pura follia che gli facevano abbracciare un cavallo, piangendo disperato.
L'Ecce homo dal pensiero forte, infatti, soffriva terribilmente per una probabile malattia neurodegenerativa, e per sopportarla provò di tutto, pur di continuare a pensare, a leggere, e a scrivere brevi e potenti aforismi. Manca quello sul superuomo che ha bisogno di tenerezza.
LA FUMERIA DI BENJAMIN
Perfino Walter Benjamin, l'intellettuale più complesso e geniale del Novecento, s' infatuò della visione stupefacente che regala l'hashish, annotando l'esperienza in un libro che uscì postumo: Sull'hashish (1972).
Lo sperimentò nel 1927, mangiandoselo, e, rilevando l'illimitata benevolenza che produceva, scrisse: «Le stesse strade di prima, solo disseminate di rose».
Lo riprovò per capire gli effetti sulla percezione del tempo, sulla società, sulla lettura. L'hashish era propedeutico per Benjamin: contro la massificazione imperante era necessario cambiare visione, cercare la via d'uscita, tornare a riveder le stelle.
Purtroppo non visse abbastanza per continuare a riflettere sulle storture del Novecento, come invece ebbe la fortuna di sperimentare Ernest Junger, che lo percorse tutto, dividendo a metà la propria biografia: fino ai cinquant' anni fu un pluridecorato uomo militare, cervello conservatore e scrittore di successo, dopo i cinquanta divenne il miglior amico di Albert Hoffmann, lo scienziato svizzero che sintetizzò l'Lsd. Insieme fecero viaggi pazzeschi, seduti in poltrona, come richiedeva la loro (terza) età.
Così, ricorda Paolucci, Junger trascrisse i suoi diari di bordo nell'opera Visita a Godenholm (1950) in cui si raccomandava di strafarsi con moderazione, e visse felice e contento fino a 103 anni, senza rilevanti problemi di salute. Insomma, un precursore di Keith Richards.
20 PASTICCHE AL GIORNO
A dimostrazione del fatto che ti puoi drogare con qualunque cosa, c'è Sartre. Il paladino dell'esistenzialismo infatti, che snobbava la salute e idolatrava la mente, si sparava almeno 20 pasticche al giorno di un medicinale a base di aspirina e anfetamina. Così Jean Paul Sartre si carburò per scrivere la Critica della ragione dialettica (1960).
I farmaci, confessò a Simone De Beauvoir, lo facevano sentire come se il suo intero sé divenisse opera.
Perse l'uso di un occhio, ebbe un ictus, fu ricoverato, ma niente lo terrorizzava, tranne antipatici "ritorni" di un trip di mescalina consumato in gioventù. Da allora infatti, visioni di granchi e aragoste lo tormentavano, inseguendolo ovunque.
Chiude la stupefacente rassegna di Paolucci il gigante della filosofia francese Michel Foucault, il ragazzo che non voleva fare il chirurgo come il padre, e gli rubava i farmaci dall'armadietto, l'omosessuale che, assaggiato il frutto proibito in California, decise di riscrivere interi capitoli della sua Storia della sessualità.
Perché se inizialmente Foucault sperimentò oppio e hashish, per riflettere sulla follia e la dimensione onirica a cui le droghe ti conducono, fu il viaggio psichedelico nella Death Valley, in compagnia di uno sconosciuto e con soundtrack di Strauss, che definì: «La più bella esperienza della mia vita», a ispirarlo davvero.
Pare quindi che restare stupefatti sia pratica antica per gli amanti del sapere in cerca della luce divina. Curioso che l'autore del saggio, sui social, sia noto come @Dio.