“UN FILM DI UN'INTENSITÀ RARA CHE COMMUOVE FINO ALLE LACRIME” – LUCA BEATRICE IN LODE DI “È STATA LA MANO DI DIO” DI PAOLO SORRENTINO: “SI DIREBBE CHE NAPOLI SIA IL SOGGETTO PRIMO DELL'OPERA. UN CONDOMINIO DOVE VIVONO I POVERACCI E LA MEDIA BORGHESIA, I DELINQUENTI E LA NOBILTÀ DECADUTA, DEVOTI A SAN GENNARO E SCETTICI CONVINTI, VI SI PARLA IL DIALETTO DEI VICOLI E IL FRANCESE DELL'UNIVERSITÀ. INVENTARE STORIE PERCHÉ 'LA REALTÀ È SCADENTE', RISULTA LA SINTESI PERFETTA DELL'IDEA DI CINEMA DI SORRENTINO, CONSACRATO PER L'ENNESIMA VOLTA TRA I PIÙ GRANDI SCRITTORI DI CINEMA E REGISTI AL MONDO…” - VIDEO
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Luca Beatrice per “Libero quotidiano”
«Ce l'hai una storia da raccontare? Se vuoi fare cinema devi avere una storia da raccontare», glielo grida in faccia al giovane Fabietto quel temutissimo regista d'avanguardia, Antonio Capuano, che si diverte a stroncare qualsiasi velleità artistica. E soprattutto che ci vai a fare a Roma, e invece il ragazzo farà di testa sua, salirà su quel treno come Moraldo nel 1953, lasciandosi dietro le spalle Napoli, il suo dolore e il suo destino, quella mano di Dio che tira a sorte ogni giorno e decide quando arriva il momento.
A Venezia Paolo Sorrentino presenta un film di un'intensità rara che punta diretta al cuore e commuove fino alle lacrime. Pesa certo l'elemento autobiografico: adolescente andò allo Stadio San Paolo per la partita di calcio e tornato a casa trovò entrambi i genitori uccisi dal monossido di carbonio fuoriuscito dalla stufa. L'appuntamento domenicale con Diego Armando Maradona insomma gli salvò la vita, motivo autentico per santificarlo.
Però È stata la mano di Dio è tanto altro, divertente, grottesco, chiassoso, volgare, raffinato, colto e popolaresco. Si direbbe che Napoli, dopo Roma, sia il soggetto primo dell'opera, ma mentre per la pellicola che gli diede l'Oscar Sorrentino depositò il marchio di quelle tre parole «la grande bellezza» entrate a far parte del linguaggio comune, il segno di una decadenza superlativa e irreversibile, qui della sua città ha colto la stratificazione talmente articolata e contraddittoria da renderne impossibile una sola identità.
Napoli è un condominio dove vivono i poveracci e la media borghesia, i delinquenti e la nobiltà decaduta, devoti a San Gennaro e scettici convinti, vi si parla il dialetto dei vicoli e il francese dell'università. Le facciate dei palazzi sono stupende, i cortili sporchi e degradati, gli appartamenti arredati con modestia o fasto, la cucina odora di cibo e la biblioteca di sapere antico, la televisione in salotto è del modello vecchio, senza telecomando, perché «noi siamo comunisti, non la compriamo nuova».
Non bastasse lo scenario, i personaggi, i caratteri, e Sorrentino sa che sono loro e non il paesaggio a fare un film, come lo pensava il suo amato Fellini, proprio in quei giorni sceso in città per provinare centinaia di comparse. La scena del pranzo domenicale fuori porta si trasforma in un nuovo Amarcord e stavolta il pazzo non è il vecchio zio Titta ma la bella, giovane, esibizionista zia Patrizia, primo turbamento erotico di Fabietto.
Alla domanda precisa del fratello, «preferiresti una scopata con lei o Maradona al Napoli?», non ha esitazioni, «Maradona» e la sua mano galeotta a vendicare gli argentini contro gli inglesi usurpatori. Il talismano di Paolo Sorrentino è ancora una volta Toni Servillo, in punta di piedi nel film, pater familias con amante misteriosa eppure il tradimento, quando non manifesto, si limita a convenzione sociale e la moglie si difende inventando scherzi esilaranti al telefono (ah, che bello il cinema quando non c'erano i cellulari e i messaggi di testo).
Ecco, inventare storie perché «la realtà è scadente», risulta la sintesi perfetta dell'idea di cinema di Paolo Sorrentino, consacrato per l'ennesima volta tra i più grandi scrittori di cinema e registi al mondo, questa volta senza l'ausilio di un soggetto forte (Andreotti, Berlusconi, il Papa) ma scavando dentro di sé, con l'intelligenza di isolare i frammenti indispensabili a fare storia oltre il rischio del romanzo di formazione, sottogenere dell'autocompiacimento narrativo.
Se l'orizzonte si chiude arriva il mare, per bagnarsi, cavalcare le onde, fuggire dalla polizia. Alcune giornate la luce ti permette di vedere lontano, il profilo di Capri. E poi andarsene, «aprire gli occhi al futuro» come dice la Baronessa. «Napule è nu sole amaro. Napule è addore è mare». Capolavoro