“HA RAGIONE ZAIA QUANDO DICE CHE SERVE IL TSO PER CHI È POSITIVO E RIFIUTA IL RICOVERO” – L’IRA DEL FIGLIO DELL’IMPRENDITORE VICENTINO, L’UNTORE DEL VENETO CHE, DOPO ESSERE TORNATO CON LA FEBBRE A 38 DALLA SERBIA, NON HA RINUNCIATO A UN FESTA E UN FUNERALE: “AL SUO COMPORTAMENTO NON TROVO GIUSTIFICAZIONE LOGICA” – MA IL FRATELLO DEL MANAGER METTE LE MANI AVANTI: “ERA UNA TRASFERTA PRIVATA, NESSUN RISCHIO PER L’AZIENDA…”
-Giusi Fasano e Andrea Priante per il "Corriere della Sera"
«Ha ragione Luca». Luca Chi? «Zaia, il governatore. Ha ragione quando dice che serve il Tso per chi è positivo e rifiuta il ricovero. Curarsi è un dovere nei confronti della comunità, non si può rischiare di contagiare altre persone».
La voce di quest’uomo — che ha 40 anni e che chiameremo Francesco anche se il suo nome è un altro — arriva da qualche angolo del Vicentino, la sua provincia, e ha un tono basso, pacato, mentre scandisce parole non proprio facili sul conto di suo padre, manager al momento intubato in un reparto di terapia intensiva con una polmonite interstiziale in corso e con la vita a rischio. Lui, il padre, si è guadagnato la fama di untore per non aver rinunciato a un’affollata festa di compleanno, a contatti con amici e collaboratori, a una cerimonia funebre e Dio solo sa a cos’altro, mentre aveva 38 di febbre e sintomi che — dati i tempi — avrebbero preoccupato chiunque.
Non lui, appunto. Che si è tenuto la febbre e la routine finché è stato così male da non poter più fare a meno di andare in ospedale. Visita, tampone e — manco a dirlo — esito positivo. Era domenica 28 giugno. «Deve ricoverarsi», gli hanno consigliato i medici. Tutto inutile: si è rifiutato ed è stato accompagnato a casa in ambulanza. Seccato, anche. Dalle domande che gli hanno fatto sulle sue frequentazioni per tracciare potenziali contagiati dal virus.
Così scocciato da essere «decisamente incompleto» — per dirla con le parole di un medico — nell’elencare i nomi per l’indagine epidemiologica. «Al suo comportamento non trovo alcuna giustificazione logica» commenta ora suo figlio prendendone le distanze. Ipotizza «una leggerezza o una sottovalutazione del pericolo al quale stava andando incontro. E pensare che papà all’inizio era molto attento a ogni forma di prevenzione...
Ad ogni modo ha sbagliato, e questo non si discute». Ha poca voglia di discutere anche il fratello del manager che dal 1980, assieme a lui, è uno dei volti dell’azienda per la lavorazione delle lamiere, a Pojana Maggiore: oggi 170 dipendenti e sedi all’estero, una delle quali in Serbia dove è ormai accertato che sia avvenuto il contagio. Sembra sia stato proprio il contagiato a raccontare di un viaggio d’affari in Serbia da dove sarebbe rientrato giovedì 25 giugno.
Ma al citofono della sua villa nel Vicentino il fratello smentisce. «Il viaggio d’affari di cui ho letto sulla stampa non esiste, non ha niente a che vedere con gli impegni dell’azienda» se la prende. E parla di «una trasferta privata di cui non ero al corrente e della quale non so niente né posso dire niente». Aggiunge che come familiari e azienda «diffonderemo un comunicato stampa che chiarisce la nostra posizione» e risponde che «no, non sono andato in ospedale e trovarlo, tantomeno so come sta». Il comunicato arriva in serata.
Poche righe per descrivere una famiglia che sembra preoccupata di far sapere al mondo quanto poco frequentasse il malato («nessuno di noi ha avuto contatti con lui da svariate settimane»), e quanto invece sia alto il «rispetto di tutte le precauzioni nelle aziende» dove sono stati «attuati i protocolli anti-Covid in maniera attenta e dettagliata».
Conclusione: nelle sedi aziendali «non esiste alcun pericolo». O, come specifica Francesco, «non esiste rischio né per i clienti né per le persone che ci lavorano». C’è un solo punto riguardo al quale famiglia e direzione aziendale si mostrano compatti e schierati al fianco dell’uomo che intanto, pur rimanendo in prognosi riservata, sembra rispondere bene alle prime cure.
E cioè: «Non è vero — Francesco lo giura — che dopo aver rifiutato il ricovero è tornato alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse accaduto. È stato riaccompagnato a casa in ambulanza e dal quel momento è sempre rimasto barricato in camera da letto per quattro giorni. Il primo luglio è peggiorato e, sempre in ambulanza, è stato portato in ospedale». La stessa nota diffusa dalla famiglia dice che «possiamo garantire: è rimasto in isolamento a casa».
Non untore, quindi. Semmai irresponsabile per non essere rimasto in isolamento al primo giorno di febbre e per non aver voluto il ricovero mettendo a rischio la sua stessa vita. Suo figlio su quest’ultimo punto ha le idee chiare almeno quanto il governatore Zaia, che chiama confidenzialmente Luca pur non conoscendolo («Non lo conosco ma lo stimo molto»).
«Appoggio completamente quanto dice», fa sapere. «Luca deve puntare i piedi e ottenere il trattamento obbligatorio ogni volta che la Sanità decide che un paziente ne ha bisogno». Suo padre compreso, ovviamente. Detto questo, Francesco chiarisce: «Un conto sono la famiglia e l’azienda, un conto è papà. Se lui ha sbagliato non significa che l’azienda sottovaluti il problema allo stesso modo». Perché abbia preso così poche precauzioni, il figlio, non riesce proprio a spiegarselo: «Quando tornerà a stare bene lo chiederò a lui».