“MARILYN MONROE E’ STATA UCCISA” – MARLON BRANDO RACCONTA IL SUO FLIRT CON MARILYN (NATO CON UNA GOMITATA) E GLI ULTIMI GIORNI DI LEI: “MI TELEFONÒ PER INVITARMI A CENA LA SERA DELLA SUA MORTE. LE SPIEGAI CHE AVEVO IMPEGNI PRECEDENTI – È STATO DETTO CHE LA MONROE ERA SCONVOLTA PERCHÉ ROBERT KENNEDY VOLEVA PORRE TERMINE ALLA LORO RELAZIONE. DURANTE LA TELEFONATA DI MARILYN, NON HO PERCEPITO ALCUNA DEPRESSIONE NÉ L’INTENZIONE DI TOGLIERSI LA VITA - LA FAMA È STATA LA ROVINA DELLA MIA VITA. HO INTERPRETATO FILM STUPIDI PERCHÉ VOLEVO DENARO. IO SONO SOLO UNA PUTTANA CHE HA LAVORATO DALL'ALTRA PARTE DELLA STRADA”
-Testi di Marlon Brando tratti da “Le canzoni che mi insegnava mia madre” – pubblicate da “Robinson – La Repubblica”
II successo di Un tram che si chiama desiderio aveva significato per me riuscire a mantenermi secondo lo stile di vita che più mi piaceva, ma aveva anche impresso alla mia vita una direzione che mi ha molto addolorato. Ho imparato che la notorietà è un'arma a doppio taglio: per ogni aspetto positivo ce n'è uno negativo. Procura certamente agi e potere; e se si desidera fare un favore a un amico, sicuramente le vostre richieste verranno esaudite.
Se volete attirare l'attenzione su un problema al quale siete particolarmente sensibili, è probabile che vi stiano ad ascoltare, e questa, tra l'altro, è una cosa che ritengo assolutamente ridicola: per quale ragione l'opinione di un divo del cinema deve ricevere maggiore considerazione di quella di un qualsiasi altro cittadino? Alcuni giornalisti mi hanno posto domande sulla fisica quantistica o sulla vita sessuale dei tripetidi, come se io ne sapessi qualcosa. E io ho risposto a queste domande!
La domanda in sé non ha importanza; il fatto è che la gente sta ad ascoltare le vostre risposte. Molti giornalisti vengono a intervistarmi con l'articolo già scritto in testa; si aspettano che Marlon Brando sia un tipo eccentrico e quindi si dicono: «Gli farò una domanda stupida e lui comunque risponderà».
Il potere e l'influenza di un divo del cinema sono qualcosa di molto curioso; non si tratta di cose che ho chiesto o che mi sono preso, me le hanno date. Per il solo fatto di essere un divo, la gente ti conferisce privilegi e diritti speciali.
La notorietà e i suoi effetti sulle persone rappresentano un fenomeno relativamente nuovo, fino a un paio di secoli fa, a meno che non si trattasse di membri della famiglia reale o di un profeta, la cui immagine veniva abbellita da seguaci e discepoli che si preoccupavano di scrivere testi sacri, raramente un individuo riusciva a essere conosciuto al di là del proprio villaggio.
La maggior parte della popolazione non sapeva leggere e le loro conoscenze venivano tra smesse oralmente. In seguito arrivarono scuole migliori, giornali, riviste, romanzetti rosa, radio, cinema e televisione, e a quel punto la notorietà divenne un prodotto universale e di immediato consumo.
Il buddismo ha impiegato millecinquecento anni per percorrere la Via della Seta e per entrare a far parte della cultura cinese; in sole due settimane la fama del twist si è diffusa da Peppermint Lounge a Tahiti. Un secolo e mezzo fa, molti americani venivano a sapere chi era il nuovo presidente soltanto diverse settimane dopo le elezioni perché questo era il tempo che la notizia impiegava per raggiungere le zone periferiche.
Ora, quando qualcosa accade a Bombay, lo si viene a sapere immediatamente da Green Bay alla Groenlandia; un viso diventa noto in tutto il mondo e gente che non ha mai realizzato nulla si ritrova a fare la celebrità di professione. Molti di quelli che non hanno successo, desiderano ardentemente diventare famosi e non riescono a immaginare che qualcun altro non sia interessato alla notorietà; per loro è impossibile che qualcuno volti le spalle al successo e a tutti i suoi vantaggi. Ma la fama è stata la rovina della mia vita, io ne avrei volentieri fatto a meno.
Una volta diventato famoso, non mi è stato più possibile essere di nuovo Bud Brando di Libertyville, nell'Illinois. Uno dei principali motivi di insoddisfazione per il mio modo di guadagnare era che mi trovavo costretto a condurre una vita falsa, e che tutte le persone che conosco, con pochissime eccezioni, sono state influenzate negativamente dalla mia notorietà. In un modo o nell'altro, consciamente o inconsciamente, ne vengono tutti influenzati.
Le persone non ti trattano più per quello che sei ma per il mito che ritengono tu sia, e mitizzare è sempre sbagliato. Vieni amato o odiato per ragioni che non hanno nulla di reale e che tuttavia, dal momento in cui cominciano a vivere, come zombie che ti seguono furtivamente - o come necrologi di giornale - resteranno in vita per sempre.
Ancora oggi incontro persone che mi vedono, automaticamente, come l'uomo duro, insensibile e rozzo di nome Stanley Kowalski (il protagonista di Un tram che si chiama desiderio, ndr). Non possono farci nulla, e tuttavia è un fatto estremamente spiacevole.
Più o meno siamo tutti voyeurs, me compreso, ma la notorietà è accompagnata dallo sciacallo, sempre a caccia di prede, del giornalismo spazzatura che possiede un appetito insaziabile per le oscenità e che non sopporta rifiuti da parte di nessuno, dai ruffiani ai presidenti (una distanza che si fa ogni anno più ridotta) e che, confuso e seccato quando non riesce a ottenere quello che vuole, ricorre alle menzogne perché appartiene a una cultura il cui primo imperativo morale è che qualsiasi cosa diventa accettabile se fa guadagnare denaro.
Nemmeno io sono innocente: anch'io faccio le cose per denaro. Ho interpretato film stupidi perché volevo denaro. Sto scrivendo questo libro per denaro, perché Harry Evans della Random House me l'ha offerto. Mi ha spiegato che la sua casa editrice, con i profitti di un libro su un famoso attore cinematografico, si può permettere di pubblicare libri di autori di talento, ma sconosciuti, che probabilmente non faranno incassare nulla.
Perlomeno è stato onesto, anche se ho trovato strano il fatto che ammettesse di pubblicare libri scadenti per riuscire a immettere sul mercato quelli realmente validi. A modo suo Harry è, proprio come me, una puttana che cerca di far soldi come può. lo sono solo una puttana che ha lavorato dall'altra parte della strada. È una leggera forma di odio verso se stessi? Non credo, ma ammetto di provare un po' di vanità nell'essere in grado di vederlo chiaramente e di confessarlo.
Alice Marchak, per trent'anni la mia segretaria, una volta ha dichiarato che, secondo lei, io possedevo una specie di doppia personalità: una parte di me apprezza i riconoscimenti e il potere derivanti dall'essere un divo del cinema, mentre l'altra detesta questa parte di me che apprezza simili vantaggi.
Io ho qualche dubbio su questa interpretazione, ma d'altra parte è impossibile comprendersi. Vi sono yogi e sapienti che hanno vissuto vicino al proprio inconscio, che possiedono una netta percezione della propria natura e che si conoscono a fondo, ma la maggior parte delle persone non può permettersi di vedere com'è veramente, perché ognuno di noi ha un senso mitologico di sé.
La persona che Alice vede non è la stessa persona che qualcun altro potrebbe vedere. Wally Cox, che era come un fratello per me, non mi vedrebbe in quel modo. Tutti quelli che incontriamo nella nostra vita ci osservano da un'ottica differente.
Le impressioni di Alice sono giuste relativamente alle lenti attraverso le quali mi guarda. Tutto è percezione. Non esiste la possibilità di giudicare le cose e le persone in modo obiettivo. Si tratta solo di un atteggiamento mentale che gli scienziati hanno voluto far accettare al mondo.
A parte i soldi, mi è piaciuto fare l’attore cinematografico? Credo di no, indipendentemente dall’opinione di Alice. Mi sono sempre osservato con precisione e determinazione. Fin da quando ero giovane, ho cercato di scoprire che cosa vi fosse di poco equilibrato nella mia personalità.
Ho dovuto esaminare con sguardo implacabile le mie vanità e le mie non proprio immacolate ambizioni per riuscire a trovare una qualche soluzione a un modello di comportamento che appare difficile da modificare. Ma non vedo niente nella mia carriera o nel modo in cui ho condotto la mia esistenza che stia a indicare che io abbia mai amato la fama e tutto ciò che ha comportato.
No, penso non mi sia mai piaciuto fare l’attore cinematografico. Mi considero di una razza a parte rispetto agli altri attori. Non che io condanni loro o ciò che hanno fatto, semplicemente non voglio essere considerato come appartenente alla loro specie.
Quando avevo trent’anni, ho tentato di esprimere alcune di queste idee rispondendo a una ragazza che mi aveva inviato una lettera piena di complimenti per il film “Il Selvaggio”: « Cara Cleola… ti ringrazio per la tua gentile lettera.
Era davvero molto lusinghiera per me. Ma non dovresti idolatrarmi tanto perché io sono semplicemente un essere umano come te. Sono felice e triste, silenzioso e vivace; in poche parole, sono più o meno come uno dei quattro miliardi di umani esistenti sulla terra. Non fare di me qualcosa che non sono. Ti mando l’autografo che mi hai chiesto. Con tanti auguri…».
Ma ho imparato che, qualunque cosa io dica o faccia, la gente tende a mitizzarmi. Il maggior cambiamento che il successo ha prodotto in me non ha nulla a che vedere con il concetto che io ho di me stesso o con la mia reazione alla notorietà, ma riguarda la reazione degli altri alla mia fama.
Io non sono cambiato. Non ho dimenticato il mio passato a Libertyville, quando non mi sentivo accettato, né gli anni della formazione, quando non avevo tutti i vantaggi che ho adesso. Ho sempre diffidato del successo, delle sue trappole e della sua capacità di annientarti.
Tutto sommato, penso sarebbe stato meglio non diventare famoso perché tutta l’esperienza della mia vita di adulto, la mia visione della vita, nonché l’atteggiamento e le esistenze dei miei amici e dei miei familiari sono stati influenzati e distorti proprio dalla mia notorietà.
Sebbene avessi deciso di non accettare altri impegni a lungo termine nel teatro, fui lieto di tornare a New York dopo aver terminato di girare Un tram che si chiama desiderio. Vivevo in un appartamento tra la Sesta Avenue e la Cinquantasettesima Strada, nei pressi della Carnegie Hall, e di tanto in tanto facevo un salto all’Actor’s Studio per conoscere delle ragazze. Una di loro era Marilyn Monroe, che in quel periodo veniva sfruttata da Lee Strasberg.
C’eravamo conosciuti subito dopo la guerra e mi ero nuovamente imbattuto, alla lettera, in lei durante una festa a New York. Mentre gli invitati bevevano e ballavano, lei se ne stava seduta in un angolo, quasi ignorata da tutti, e suonava il piano. Io stavo chiacchierando con qualcuno e avevo un bicchiere in mano, mi divertivo, quando all’improvviso una persona mi batté sulla spalla; girandomi di scatto, le diedi una gomitata sulla testa. Avevo colpito duramente e sapevo che dovevo averle fatto male.
« Oh, mio Dio! » esclamai. « Mi dispiace. Mi dispiace davvero. È stato involontario » . «Non vi è nulla di involontario » , mi aveva risposto Marilyn, fissandomi negli occhi. Lo aveva detto come una battuta di spirito, e io scoppiai a ridere. Poi mi sedetti accanto a lei, dicendo: « Ti faccio vedere come si suona il piano. Non sei proprio capace» .
Cercai di suonare al meglio per qualche battuta, poi cominciammo a chiacchierare. In seguito, le feci qualche telefonata di tanto in tanto. Una sera la chiamai: « Voglio venire a casa tua immediatamente, e se non hai una buona scusa per cui non dovrei venire… forse semplicemente non vuoi… dimmelo subito» .
Mi invitò a casa sua e, poco dopo, il sogno di ogni militare si avverò. Marilyn era una persona sensibile e incompresa, molto più percettiva di quanto si immaginasse. Nessuno l’aveva mai presa in seria considerazione, e tuttavia possedeva una notevole intelligenza emotiva: un intuito finissimo per i sentimenti degli altri, il tipo di intelligenza più raffinata.
Dopo quella prima volta, abbiamo iniziato una relazione e poi ci siamo visti in modo discontinuo fino alla sua morte, nel 1962. Mi telefonava spesso e restavamo a chiacchierare per ore; a volte mi parlava del fatto che cominciava a rendersi conto di quanto Strasberg e altre persone stessero cercando di usarla. Stava diventando una persona emotivamente molto più stabile.
A quanto ricordo, l’ultima volta che ci siamo sentiti è stato prima della sua morte. Mi telefonò dalla sua casa di Los Angeles per invitarmi a cena quella sera. Le spiegai che avevo impegni precedenti e che non potevo accettare il suo invito, ma promisi anche di telefonarle la settimana successiva per fissare un appuntamento per cena.
« Benissimo » , mi aveva risposto e questo fu tutto. È stato detto che Marilyn aveva trascorso segretamente quella settimana con Robert Kennedy e che era sconvolta perché lui voleva porre termine alla loro relazione. Ma a me non era sembrata depressa e penso che non mi avrebbe invitato a cena se in quello stesso periodo stava con lui.
Mi ritengo piuttosto bravo a comprendere gli stati d’animo delle persone e a intuire i loro sentimenti. Durante la telefonata di Marilyn, non ho percepito alcuna depressione né vi fu alcun indizio che facesse supporre l’intenzione di togliersi la vita. Ecco perché sono convinto che non si sia suicidata.
Se una persona è giunta al limite estremo della depressione, per quanto cerchi di nasconderla, si tradirà inevitabilmente. Ho sempre avuto questa insaziabile curiosità per la gente e sono certo che avrei percepito che c’era qualcosa che non andava se Marilyn avesse avuto anche solo una vaga intenzione di suicidarsi. Lo avrei capito.
Forse è morta per un’involontaria overdose di medicinali, ma io sono da sempre convinto che l’abbiano uccisa.