“MORIRE NON È UNA SFORTUNA, ALTRIMENTI, PER EVITARLA, BASTEREBBE CHE SMETTESSIMO DI FARE FIGLI…” – ANGE FEY, DI PROFESSIONE “ACCOMPAGNATORE DELLA MORTE”: “UNO PSICHIATRA MI HA DEFINITO CARONTOLOGO. COME IL MITOLOGICO CARONTE, TRAGHETTO ALL’ALTRA RIVA. MI HANNO DEFINITO “ESSERELISTA”, PERCHÉ IL MIO LAVORO È “ESSERE LÌ. DEVO ANTICIPARE IL LUTTO" - "SIAMO IMMERSI IN UNA CULTURA PER CUI A CHI STA MALE DIAMO UN CALCIO E NON CE NE OCCUPIAMO PIÙ. ACCADE PERSINO CON IL GATTO: UNA PUNTURA DAL VETERINARIO E VIA. MA È DAVVERO NECESSARIA? OPPURE GLIELA PRATICHIAMO PERCHÉ..."
Estratto dell’articolo di Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera”
Si chiama Ange Fey, è nato nel 1962 a Parigi, e nel nome, Angelo in francese, c’era già il suo destino, però al contrario. Lui non è l’angelo della morte degli ebrei e dei musulmani, anche se svolge una professione senza eguali in Italia: accompagnatore alla morte. Se gli chiedi a quanti agonizzanti è stato vicino, un lampo di smarrimento gli attraversa gli occhi azzurri: «Non lo so, non lo so».
[…] Fey abita ad Andrate (Torino). Nel 1997 ha fondato ad Aosta una onlus, Il bruco e la farfalla, per stare accanto alle persone in fin di vita. «Preparo medici, psicologi, ostetriche, infermieri, ma anche la signora Maria». Quando vigeva l’obbligo d’indicare la professione sulla carta d’identità, era in imbarazzo: «Accompagnatore ricordava una escort. Ho preferito formatore. Uno psichiatra argentino mi ha definito carontologo. Come il mitologico Caronte, traghetto all’altra riva».
Perché scelse questo mestiere?
«Il primo libro che lessi per intero, a 17 anni, era Mourir n’est pas mourir di Isola Pisani. Avrei dovuto capire allora che c’era una qualche malattia dentro di me.
Sentivo parlare del bruco sgraziato che si trasforma in farfalla meravigliosa, ma nessuno mi spiegava come finisce la farfalla. È meno romantico, no? Così cominciai a studiare le capacità di cambiamento dell’essere umano, la psicologia applicata, le tecniche alfageniche di rilassamento, la sofrologia».
Come divenne accompagnatore?
«Mi chiamavano in ospedale per i parenti in fin di vita. Un infermiere di malattie infettive mi disse: “Un ragazzo sta morendo. È solo. Ha chiesto di avere accanto qualcuno. Te la senti? Ha 28 anni”. Io ne avevo 25, ero sconvolto. Allora non si parlava di Aids. Mi trovai in mezzo a un’ecatombe. Una paziente che avrà avuto l’età di Asterix mi guardò sorridendo: “Ho un morbo che non va di moda”. Per gli oncologici c’erano varie associazioni, per lei nessuna. Come mai ci si prende cura di chi nasce ma non di chi muore? Eppure la morte non è una malattia».
In pratica che cosa fa?
«Non c’è tecnica. Porto me stesso. Mi hanno definito “esserelista”, perché il mio lavoro è “essere lì”. […] È come mettere l’indice sulla culla di un neonato: lo afferra subito. Una persona in coma ti prende la mano e la tiene stretta».
[…] Applica un protocollo?
«Non c’è regola. Me ne occupo e basta, non so come. Arrivo in una casa e ignoro se potrò essere utile. Non sono un infermiere, non sono un medico. Semplicemente sono “pronto a”. Riattivo le risorse intorno alle persone agonizzanti. I parenti non sanno neppure che esiste la legge sulle Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento. Chiedo: se sopraggiunge una crisi respiratoria, che facciamo? Rianimiamo o no? Alimentiamo o no? Immagini sua madre che sta morendo. Non parla e non ha lasciato nulla di scritto. Lei vuole nutrirla, i suoi fratelli no. A quel punto si sfalda la famiglia».
[…] Che cosa cercano i volontari per i quali tiene corsi formativi?
«L’Italia è fondata sul pezzo di carta. Troppi cercavano solo un titolo. Per questo ho rinunciato alla convenzione con l’ospedale di Aosta e a portarli con me. Accompagnare la vita fino alla morte è un modo di essere. Serve un talento. Morire non è una sfortuna, altrimenti, per evitarla, basterebbe che smettessimo di fare figli. Perché funzioni così, non lo so, non ne ho la minima idea. Credevo di averla a 20 anni. Oggi non ce l’ho più».
Non è nemmeno una fortuna.
«Della morte tutti pensano: il più tardi possibile. Sbagliato. Il più in salute possibile. Quando entro nelle residenze per anziani, mi sento male. Il fatto che tutto finisca mi spinge a chiedermi: come impiego il mio tempo? Sovente il moribondo sospira: “Se avessi saputo...”. Allora mi dico: Ange, tu adesso lo sai»
«[…] Credo che si debba legiferare su eutanasia e suicidio assistito. Ma è meglio promuovere la cultura del Maalox o quella della buona alimentazione? Non si parla mai di accanimento terapeutico. Mi diagnosticano la Sla, so che non potrò uscirne vivo. Ha senso che assuma gli anticoagulanti?».
Sta molte ore con i malati terminali?
«Dipende. Se occorre, anche 10 ore al giorno. Mi confidano ciò che non hanno mai detto a nessuno. Devo anticipare il lutto, dichiarare la terminalità. I parenti ne hanno paura. Io sono lo Svitol: sciolgo. Il mio lavoro è cambiare l’aria».
[…] Le hanno mai impedito di stare accanto a un paziente?
«No. Sono invitato. Ho la scritta “morte” sulla fronte, non so se la vede».
Di che parla con gli agonizzanti?
«Sono presente in silenzio. Ho soltanto molto chiaro che nulla dura, nulla! E che tutti, loro, io, lei, moriremo. Serve preparazione. […] Abbiamo smarrito ciò che c’è prima, durante e dopo la morte, l’abbiamo disumanizzata. Siamo immersi in una cultura per cui a chi sta male diamo un calcio e non ce ne occupiamo più. Accade persino con il gatto: una puntura dal veterinario e via. Ma è davvero necessaria? Oppure gliela pratichiamo perché fa comodo a noi?».
Qualche volta va a trovare in cimitero i defunti che ha accompagnato?
«Oh sì, certo. Spesso. Mi serve».
Che cosa ha imparato da loro?
«Che si muore. Che non è uno scherzo. Che non è angoscioso. Che l’ansia del distacco si supera in 15 minuti. Che ci è stato dato un tempo, di cui non vogliamo mai considerare la fine. L’ho imparato da una signora di 90 anni. “La vita è breve, la vita è breve”, continuava a ripetermi. Era una lettrice di Famiglia Cristiana . L’ho resa felice imitando l’accento tedesco nel leggergli un’intervista con l’allora cardinale Joseph Ratzinger».
Chi sta per morire è rassegnato?
«I processi sono cinque: ignoro, mi arrabbio, patteggio, mi deprimo, accetto. È che oggi ci fanno morire drogati, imbottiti di psicofarmaci».
Qual è la richiesta più frequente?
«“Non lasciarmi solo”».
«Aiutami a morire» no?
«Sì, ma attenzione: non significa “fammi fuori”. Mi terrorizza chi ti fa firmare il testamento biologico sulle bancarelle per strada. Ma siamo diventati matti?».
Lei è credente?
«Sono battezzato. Ho una vita spirituale, ma riguarda solo me. Non ne parlo mai. Imito don Sergio Messina, che era cappellano all’ospedale Amedeo di Savoia a Torino. Entrando a un incontro in curia vescovile, disse: “Il vostro Dio l’ho lasciato fuori dalla porta”. Molti malati si scusavano: “Padre, sono credente ma poco praticante”. Lui rispondeva: “Non preoccuparti. Ho tanti confratelli che sono molto praticanti e poco credenti”».
[…] Ma lei ha capito il senso della vita?
«Sì. Ha dato un senso a me».