“LA PRIMA DOMANDA CHE MI HANNO FATTO, APPENA MESSO IN ISOLAMENTO, E’ STATA ‘CON CHE COSA PAGA?’” - LA STORIA DEL VICESINDACO DI AZZANO, IN PROVINCIA DI BERGAMO, RICOVERATO A NEW YORK PER COVID: HA RICEVUTO UN CONTO DI 100 MILA DOLLARI PER 17 GIORNI DI OSPEDALE - IL RACCONTO: “IL CIBO? IN TERAPIA INTENSIVA MI DAVANO HAMBURGER E PATATINE FRITTE, E PIZZA CON IL KETCHUP. NON POTEVO MANGIARLI, HO PERSO 12 CHILI E…”


Giuliana Ubbiali per www.corriere.it

 

Era confuso, in quel momento. Ma realizzava di trovarsi in albergo a New York e di avere la febbre a 41°. Ricorda i due infermieri del 911 bardati con tute, mascherine e visiere, e di aver percorso tre curve in ambulanza per arrivare all’ospedale Mount Sinai West. Difficile dimenticare la prima domanda, appena messo in una camera isolato da tutti: «Con che cosa paga?».

FRANCESCO PERSICO VICESINDACO DI AZZANO

 

Francesco Persico, 33 anni, elettricista della Automazione 2001 e vicesindaco di centrodestra ad Azzano San Paolo, ha tirato fuori dallo zaino il foglio dell’assicurazione fatta dall’azienda. Otto mesi dopo ci sorride, ma allora alla preoccupazione di trovarsi in ospedale con il Covid a 6.000 chilometri da casa e di rassicurare la moglie, a casa con la bimba di tre anni, si era aggiunto il pensiero di un conto salatissimo. Per curiosità ha voluto saperlo: «Centomila dollari di ospedale più 2.500 per gli 800 metri in ambulanza. Per fortuna, e ringrazio la mia azienda, ero assicurato ma in quel momento il timore era forte anche a casa, con il costo di 8.000 dollari al giorno in terapia intensiva».

 

FRANCESCO PERSICO VICESINDACO DI AZZANO

Qualcosa ha pure rischiato, l’ha scoperto dopo: «Una clausola diceva che l’assicurazione non avrebbe pagato se l’Oms avesse dichiarato la pandemia globale. La mia fortuna è essere stato ricoverato prima». In terapia intensiva, con la maschera dell’ossigeno, è andato quando il respiro è diventato corto. Ancora oggi, non sa se il Covid se l’è portato dall’Italia o se l’ha preso in America in un periodo in cui la confusione era solo all’inizio. A New York doveva costruire un grattacielo, il 28 febbraio era partito per la Despe demolizioni con un collega dell’azienda, altri due elettricisti e due meccanici, lasciandosi alle spalle il Carnevale e le altre attività del paese annullate.

 

coronavirus, la terapia intensiva di un ospedale di new york 5

«Dopo una settimana ho avuto la febbre, ma come per la classica influenza. Ho preso la tachipirina. Dopo 3-4 giorni non passava, avevo capogiri e mal di testa. Poi stavo benissimo e la domenica con i colleghi siamo andati a vedere la partita di basket». Lunedì le febbre è salita e sono scattati i sospetti. Di uno dei colleghi: «Chiamiamo qualcuno», mi ha detto. E dell’albergo: «Non mi hanno voluto mandare il medico, così abbiamo chiamato il 911».

 

Si definisce «il paziente zero in quell’ospedale. Non erano preparati: ho aspettato mezz’ora sull’ambulanza, il personale ha allestito uno spazio lì per lì, mi hanno trasferito nel reparto di malattie infettive. Da me entravano protetti ma poi, li vedevo dal vetro, si cambiavano in corridoio. Mi hanno trasferito in terapia intensiva, con la maschera facciale dell’ossigeno. Devo dire che ho ricevuto molte attenzioni, se penso alle immagini di Bergamo con i tutti quei pazienti tutti insieme perché non c’era posto».

FRANCESCO PERSICO VICESINDACO DI AZZANO

 

Parentesi, anche su questo sorride: «Il cibo, ho fatto anche le foto. Hamburger e patatine fritte, e pizza con il ketchup in terapia intensiva. Non potevo mangiarli, ho perso 12 chili, appena uscito sono andato al supermercato a comprare del cibo». Ricoverato il 9 marzo, ha lasciato l’ospedale il 25 marzo. «Quando sono stato dimesso non mi hanno fatto il tampone, dovevo rimanere 7 giorni in quarantena in hotel».

 

Se all’arrivo aveva trovato una città «dalla vita normale», all’uscita ha colto i primi segnali che la pandemia stava segnando anche New York. «Sotto la porta della camera dell’albergo ci hanno infilato un biglietto con scritto che avremmo dovuto andarcene perché chiudevano. Ci siamo spostati e anche nel secondo albergo è successa la stessa cosa. Sono rientrato il 4 aprile, con un volo Alitalia per il rimpatrio dei connazionali».

 

coronavirus, la terapia intensiva di un ospedale di new york 4

Non era finita. «Sono riuscito a farmi fare il primo tampone il 15 aprile a Seriate, il secondo il 22 ad Albino». Che ci fossero 6.000 o 6 chilometri di distanza, per lui come per tutti i pazienti Covid una delle principali sofferenze è stata rimanere lontano dalla famiglia.

 

«Mia moglie si era trasferita dai genitori, ho rivisto la bimba due mesi dopo. E poi, io che ho la delega anche alla Protezione civile, non sopportavo l’idea di non poter essere in giro ad aiutare nell’emergenza». Ora che è tutto finito, «si, sì, sto bene», dall’America si è portato a casa una lezione: «Rispetto a tante polemiche, non abbiamo nulla da imparare sulla serietà e capacità di gestire l’emergenza. Trump? Beh, alcune uscite come quella sulla candeggina…. Il fastidio più grande è chi prende questo virus alla leggera, i negazionisti. Non ci sono passati, per forza. Ad Azzano in tre mesi abbiamo avuto cento morti».

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